Settimana scorsa pioggia e freddo ci hanno messo a dura prova: via l'estate in un lampo ed eccoci in autunno. Spesso i temporali e la pioggia vengono usati come metafore per descrivere il dolore, la sofferenza, la tristezza. E altrettanto spesso ci dicono, sempre nella metafora, che la pioggia è necessaria per la crescita, che dopo la tempesta arriva il sole, che non c'è arcobaleno senza temporale, che bisogna imparare a ballare sotto la pioggia...beh, sì, potrebbe essere anche bello e romantico ballare sotto la pioggia ... a condizione che non sia un diluvio e che si abbia la sicurezza di una casa calda dove asciugarsi e riposarsi poi. Voglio sfidare chiunque a trovare un lato positivo nello stare dentro al temporale sempre, senza reti di sicurezza, senza che smetta, senza sapere dove andare e se finirà mai!
Mi ha fatto pensare alle persone che incontro nel mio studio: anche loro stanno attraversando una tempesta e io chiedo loro di raccontarmela, di starci dentro, di capirla insieme, di trovarne un senso per poterne uscire. Oggi voglio dire loro che stanno facendo un lavoro pazzesco, doloroso e faticoso e voglio ringraziarli perché, nonostante non riescano a vedere il sole dietro le nuvole, si fidano di me.
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Vera ha iniziato l'asilo nido. Come capita con tutti i nuovi inizi, a qualsiasi età, si sperimenta un miscuglio di emozioni diverse. Probabilmente la paura per quel "vago" che ci aspetta, è quella meno facilmente gestibile. Se per i bambini lo sappiamo bene e ci premuriamo di organizzare un inserimento graduale, rispettando i loro tempi, per noi adulti la faccenda è diversa. Nascondiamo quella paura, perché forse ci hanno insegnato così, che non bisogna averne. Non ci ascoltiamo e a volte forziamo i tempi senza rispettare i nostri bisogni. Se non riusciamo subito, ecco che ci sentiamo sbagliati, incompetenti e fallimentari. Agli adulti non sono permessi "inserimenti graduali", metaforicamente parlando. Se nella pratica non sono fattibili, possiamo però ritagliarci un po'di tempo per fermarci a riflettere sull' "inserimento" di cui avremmo bisogno. Ecco un esercizio!
In queste giornate estive cerchiamo di inventarci sempre nuove cose da fare insieme a Vera. Oggi è stato il giorno dello "sgranare i fagioli". Piccoli gesti, certo, che mi fanno riflettere su quanto a volte ci si perda nei pensieri sul futuro (e non sempre sono preoccupazioni) e, con la testa già al domani, si perda anche il piacere dell'oggi. A me capita spessissimo di immaginare il futuro, le cose che mi piacerebbe fare, come sarà mia figlia "grande", il prossimo posto in cui andremo a vivere e a volte fantastico così tanto che vorrei fosse già qui quel futuro. Ma così facendo, non riesco a stare nel presente, a godermi ciò che accade ogni giorno, seppur piccolo. Allora mi sono ripromessa, per almeno queste vacanze, di pensare solo ad oggi...a quell'oggi che era proprio il domani che immaginavo ieri!
Vera sta iniziando a sperimentare le prime frustrazioni. I nostri "NO", ad esempio, vengono spesso accolti con pianti, gesti nervosi, lamentele, a volte morsi e pizzicotti. A volte dura di più, e necessita di un nostro intervento, a volte invece basta molto poco perché le torni il sorriso. Tutto nella norma, insomma! Oggi al parco ci siamo divertite a soffiare via l'infruttescenza di qualche soffione. Ha voluto raccoglierne un paio ma, muovi di qui e muovi di lì, e presto si è ritrovata con i soli steli in mano. E questo ha generato in lei una reazione diversa: un misto di tristezza e rabbia, forse potrei azzardare a dire delusione. Tutto ciò mi ha fatto pensare a noi adulti e alle situazioni che ci capita di vivere. A volte vorremmo che gli altri non ci dicessero i loro "no", che si comportassero come è nei nostri desideri, a volte siamo noi, coi nostri movimenti, a disattendere le nostre stesse aspettative. A volte ancora ci si mette di mezzo un colpo di aria improvvisa, a cambiare i nostri piani e a costringerci a prendere una rotta diversa. A voi è mai capitato? E come avete reagito? Siamo sempre capaci di distinguere ciò che possiamo controllare e quindi cambiare da ciò che non lo è? Proviamoci insieme!
Questa foto risale a qualche mese fa, quando ancora allattavo mia figlia di giorno e la lasciavo dormire in braccio di tanto in tanto. Non l'ho messa per parlare di allattamento, ma per condividere con voi ciò che ogni cambiamento porta con sé. Dopo circa un anno infatti, ho iniziato a sentire il peso di allattare a richiesta mia figlia. Ero affaticata, nervosa, stanca di dover ogni volta concedermi. Più e più volte mi sono detta "Ora basta, si cambia" e puntualmente ogni volta tornavo sui miei passi... Perché? Forse per abitudine, per paura di dover gestire i suoi pianti, forse perché, in fondo, era un momento tutto nostro, l' unica coccola che mia figlia mi chiedeva e a me piaceva da matti averla in braccio tutta per me. Capita così: che alcune situazioni che vorremmo cambiare, nascondono anche, paradossalmente, dei "vantaggi". Ci ho messo altri sei mesi per decidere davvero di fare il cambiamento. Sei mesi in cui si sono altalenati diversi stati d'animo. Alla fine, il primo giorno senza allattamento, è stato faticoso ma meno del previsto. E sapete cosa è successo? Che il cambiamento ha fatto bene ad entrambe. La mia stanchezza se ne è andata e insieme siamo riuscite a trovare altri modi per godere del tempo insieme, accoccolate e vicine. A volte i cambiamenti sono difficili, ci dobbiamo concedere il tempo di prepararci e capire come possiamo portare nel nuovo le cose " vecchie" che ci fanno stare bene. A tutti sarà capitato almeno una volta di sentire la famosa "barzelletta delle uova" con cui si conclude il film di Woody Allen "Io e Annie":
Frattanto si era fatto tardi e tutt'e due dovevamo andare per i fatti nostri. Ma era stato molto bello, rivedere ancora Annie, dico bene? Mi resi conto di quanto era in gamba stupenda e, sì, era un piacere... solo averla conosciuta... e allora io penso a quella vecchia barzelletta, sapete, quella dove uno va da uno psichiatra e dice: Dottore, mio fratello è pazzo, crede di essere una gallina. E il dottore gli dice: Perché non lo interna? E quello risponde: E poi a me le uova chi me le fa? Il significato che il regista dà alla barzelletta arriva subito dopo, quando l'attore spiega che "Beh, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo /donna: e cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi, e assurdi... Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova.". Parlandone con una persona durante un colloquio, abbiamo cercato di trovare altre chiavi di lettura della barzelletta. Abbiamo provato a rileggerla, complice anche il momento di emergenza e di isolamento che stiamo vivendo, pensando al cambiamento e alle emozioni ad esso correlato. Le situazioni che si vivono, così come non piacciono e fanno stare male (preoccupazione per il fratello-gallina), contengono a volte anche dei vantaggi (ho sempre le uova fresche). Ed è per questo che è così difficile cambiare. Quante volte infatti ci lamentiamo per il lavoro, ma è difficile lasciarlo per uno nuovo? Quante volte continuiamo ad intessere le relazioni con persone che non ci fanno stare bene ma diventa faticoso allontanarsene? Quante volte ci proponiamo dei buoni propositi che poi non riusciamo a mettere in pratica? Forse, senza rendercene conto, la situazione nasconde dei vantaggi o soddisfa alcuni bisogni latenti e necessari. Se doveste pensare ad una situazione che vorreste modificare e allo stesso tempo trovate difficile cambiare, quali potrebbero essere i bisogni nascosti che invece riesce a soddisfare? E che lettura diversa dareste a questa barzelletta?
Tre bambine al parco: tre colori diversi, tre lingue madri differenti. Mi piacerebbe sapere cosa si stanno dicendo, di sicuro stanno comunicando. Senza avere ancora le competenze proprie del linguaggio verbale adulto (e senza che la lingua madre sia la stessa), usano gesti e suoni per capire e farsi capire. E per fare ciò occorre avere da un lato la curiosità, dall'altro la pazienza dell'ascolto. Che sono spesso gli atteggiamenti che perdiamo da adulti, quando la padronanza delle parole ci fa credere che bastino quelle per inviare messaggi efficaci. Capita allora, soprattutto durante i litigi, che ci affidiamo solo al verbale senza soffermarci ad ascoltare davvero noi stessi e l'altro, i nostri bisogni così come i suoi. Cercherò di ricordarmi di questa immagine la prossima volta che mi capiterà di litigare con qualcuno: un invito all'ascolto attento ed attivo. Adoro i Peanuts per la capacità che hanno di cogliere e descrivere la complessità della vita in modo semplice ed immediato. Su questa striscia potremmo dire di tutto e di più. Io l'ho scelta per il tema dei "litigi", per sottolineare (come nell'esercizio) che un passo fondamentale quando si comunica con un'altra persona è la curiosità verso il suo punto di vista. Se questa viene a mancare, manca l'attenzione necessaria per ascoltare e la voglia di comprendere la prospettiva dell'altro. Che non significa giustificare o cambiare opinione. Significa "semplicemente" conoscerla meglio. E sicuramente, con una tale conoscenza, anche un litigio può diventare interessante e costruttivo.
Ci sono delle volte in cui un odore, una percezione, un'atmosfera, mi riportano velocemente a qualche ricordo del passato. Quando sento profumo di zucchero a velo, quando vedo la luce farsi spazio tra i rami degli alberi ed entrare dalle finestre di casa, quando il vento regala una tregua ai pomeriggi silenziosi ed afosi. Solitamente sono ricordi piacevoli, della mia infanzia o anche più recenti, che mi lasciano un dolce sensazione di benessere. Mi domando cosa mia figlia ricorderà di queste calde giornate estive passate insieme a giocare. Forse è ancora troppo piccola, o forse, quando vedrà il sole passare attraverso la tenda di un balcone e sentirà il fresco dell'acqua sui piedi, le torneranno vive le immagini di noi due insieme. E spero ne sia felice. Ogni giorno possiamo domandarci che ricordi vogliamo che i nostri figli serbino di noi, perché saranno proprio questi a contribuire a renderli felici da grandi. Succede anche a voi? Cosa vi riattiva dei ricordi piacevoli? Fai Nel percorso terapeutico, le persone affidano i propri ricordi, soprattutto quelli più significativi e/o dolorosi, allo psicologo.
Alcune persone continuano a soffrire per un evento anche a distanza di moltissimo tempo dall’evento stesso. Spesso riportano di provare le stesse sensazioni ed emozioni negative e di non riuscire per questo motivo a condurre una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo e relazionale. In questi casi, quindi, il passato è presente. Altre volte si preferisce chiudere i ricordi dietro una porta, sperando di non soffrire più, ma loro continuano a bussare. Quando le esperienze passate interferiscono in modo da produrre malessere nel presente e in ottica futura, lo psicologo accompagna la persona ad affrontare i ricordi non elaborati, che possono dare origine a molte disfunzioni. Di cosa abbiamo bisogno quando viviamo un’esperienza dolorosamente ?. A tutti capita di sentirsi attaccate addosso delle etichette, come quelle dei libri. Etichette che, ad un certo punto, non ci vanno più bene, vogliamo toglierle, ci infastidiscono, nascondono qualcosa che vorremmo vedere. E allora le proviamo tutte. Iniziamo a staccare delicatamente: con alcune etichette funziona alla grande ma con altre viene via solo un pezzo. Ci riproviamo da un altro lato e niente, l'etichetta resta ancora lì. Forse bisogna scaldare la colla, ormai troppo secca o forse troppo forte. Un colpo di aria calda e speriamo che venga via. Succede a volte...a volte no. Allora siamo presi dall'impazienza, tentiamo di strappare velocemente e l'etichetta viene sì via ma con un pezzo di copertina. Forse quell'etichetta è destinata a restare attaccata a vita? Dobbiamo scegliere, se preferiamo averla o se invece siamo disposti a vedere il libro senza, costi quel che costi. Sarà più brutto il libro? Forse era meglio prima? Lo abbiamo rovinato? Non è più lo stesso? Ognuno può scegliere cosa fare delle proprie etichette, scegliere se tenerle o se toglierle. Probabilmente ci vorrà tempo per staccarle, soprattutto quelle etichette che sono lì da anni e che ormai sono parte di noi. Ma se sentiamo che non ci fanno bene, possiamo decidere che è arrivato il momento per cambiare qualcosa. Chissà quando, dove e da chi abbiamo imparato che i nostri lati negativi sono più rilevanti di quelli positivi, quelli di cui vergognarsi, da nascondere, quelli che non ci fanno amare dagli altri e che ci fanno meritare la solitudine e l'infelicità. Ma positivo e negativo fanno parte del nostro essere umani. Focalizzarci solo su ciò che non va ha conseguenze negative. Se non riusciamo a vedere i nostri pregi e le nostre risorse, non riusciremo mai ad utilizzarle per risolvere i nostri problemi e difficoltà, facendoci credere che effettivamente non abbiamo le capacità desiderate. Dall'altro lato, vedere tutto positivo, non ci permetterebbe di fare luce sui punti critici e su ciò che possiamo fare per migliorarci e stare meglio. Proviamo allora a descriverci bilanciando i due aspetti: quali sono le nostre risorse che possiamo usare per migliorare quei lati negativi che non ci piacciono? Possiamo decidere di affrontare ciò che ci accade in base al copione che ci suggerisce una nostra etichetta. Posso comportarmi da "fallito" di fronte ad una difficoltà, da "debole" di fronte ad una ingiustizia, da "incapace" davanti ad un compito. Oppure posso decidere che quel copione non è adatto, che non mi fa stare bene, e provare a scegliere qualcosa di diverso. Le alternative che abbiamo sono molteplici, alcune più semplici, altre più complesse, alcune sono sotto ai nostri occhi, altre fatichiamo a vederle. Ma il passo più difficile è il primo: scegliere.
Il lavoro dello psicoterapeuta consiste anche, ma non solo, nel prendersi cura delle storie delle persone. Le persone che incontro in studio sono tutte importanti: cerco sempre di farle sentire a loro agio (perché raccontare ciò che ci fa stare male non è mai piacevole né facile) e di rendere i nostri colloqui il più utili possibili per loro. A volte mi dimentico che può valere anche il contrario! Queste ciliegie sono state un regalo da parte di una persona che ha intrapreso un percorso di psicoterapia. Stiamo lavorando insieme da un bel po' di tempo, un lavoro di cura faticoso, doloroso ma in cui ho riposto molta fiducia. Ecco, io questo regalo lo vedo così: un prendersi cura del terapeuta e non posso che esserne grata. Ci sono persone che sono molto concentrate su loro stesse e persone che sono sempre attente ai bisogni degli altri. Persone che pensano in modo prioritario al loro benessere e persone che mettono al primo posto il benessere altrui. Persone che osservano la realtà solo dal loro punto di vista e persone che si mettono sempre nei panni degli altri. Fortunatamente non si tratta di giusto o sbagliato, di attribuire giudizi positivi o negativi, di accusare o difendere un comportamento . Si tratta di consapevolezza. Ci sono infatti momenti in cui abbiamo bisogno di pensare solo a noi stessi e momenti in cui è necessario spostare l'attenzione sull'altro. È giusto essere "egoisti" quando sentiamo di non stare bene così come è giusto essere "altruisti" quando è l'altro ad averne bisogno. A volte poi questi due atteggiamenti sono interconnessi, soprattutto quando si parla di relazioni. Il primo passo è sempre ascoltare i propri bisogni e le proprie necessità, in virtù di quello che siamo e che vogliamo essere, ovviamente nel rispetto dell'altro. La cosa positiva è che più diventiamo abili nel prendere consapevolezza, più saremo capaci di equilibrare questi due aspetti, a seconda del momento e della relazione, senza cadere nelle trappole di comportamenti rigidi ed immodificabili. Voi come vi sentite? Siete più Lucy, Charlie Brown o avete trovato la giusta consapevolezza? Quando sentiamo che la situazione che stiamo vivendo non è come vorremmo, capita di iniziare a pensare a tutte le cose che andrebbero cambiate. Nell'elenco finiscono, inevitabilmente, anche "gli altri" e quello che loro dovrebbero modificare o fare per farci stare meglio. Purtroppo però non ci è possibile fare cambiare gli altri senza la loro volontà. Come fare? Socrate ci suggerisce "muovi prima te stesso". Spesso infatti iniziare a cambiare noi per primi porta con sé degli effetti a cascata anche sugli altri che ci stanno vicino. A questo aggiungo: individua i tuoi bisogni nei confronti degli altri e prova ad esplicitarli. A volte si fatica a riconoscere ciò di cui l'altro ha bisogno ma basta un sereno confronto affinché gli altri capiscano cosa possono fare dal loro punto di vista per aiutare noi. Anche questo è un gesto di cura verso noi stessi!
Chi ama curare fiori e piante sa che ognuna ha bisogno di attenzioni particolari: il tipo di terreno, l'esposizione alla luce, la necessità di acqua. Se si sbaglia qualcosa, le piante sanno farsi capire: foglie secche, niente fiori, colori spenti o rami spogli. Con questa Cymbidium Ice Cascade, ad esempio, ci sono voluti un po' di tentativi prima di riuscire a trovare la formula perfetta affinché potesse rifiorire di nuovo in pienezza.La stessa cosa possiamo fare con noi stessi : quando sentiamo che le condizioni in cui viviamo non ci fanno stare bene (siano esse il lavoro, o altri ambiti relazionali) possiamo provare a cambiare qualcosa. Il primo passo è osservare e ascoltare ciò che il nostro corpo comunica ( come tensione, dolori, insonnia ...) e cercare di individuare quali bisogni sentiamo non essere ancora soddisfatti. Cosa possiamo cambiare affinché si ritorni a fiorire? Come possiamo prenderci cura di noi stessi? La situazione di emergenza e le conseguenze che ha portato nella nostra vita ci hanno fatto riflettere sul tema della responsabilità collettiva. Anche tornare al lavoro e mettere in atto misure di prevenzione è responsabilità e dovere di tutti. Possiamo quindi chiederci cosa noi siamo in grado di fare per tutelare la nostra salute e proteggere gli altri, cosa è in nostro potere fare, cosa è un nostro diritto (ed è giusto affermarlo) e cosa un nostro dovere. Gettare la colpa e la nostra rabbia sugli altri come noi ha il vantaggio di non farci sentire le nostre paure ma ci porta a non agire in modo responsabile. Cercare di vedere la situazione come una responsabilità collettiva che riguarda tutti aiuta invece a prendere in mano il controllo, a farci sentire capaci di affrontare la crisi, ed efficaci nel prenderci cura di noi stessi e degli altri. E così può valere non solo per la pandemia ma per tanti altri problemi sociali. La nascita del coronavirus non è di certo nostra responsabilità ma lo è domandarsi cosa possiamo fare per gestire la situazione al meglio nel nostro piccolo, con le risorse e gli strumenti che abbiamo. Se il lavoro diventa una fonte di stress per la paura del contagio, ecco che possiamo decidere come proteggerci e proteggere gli altri, consapevoli che purtroppo non esisterà mai un rischio zero. Mettere in atto semplici comportamenti di protezione ha inoltre il vantaggio secondario di farci sentire responsabili, utili per la comunità e più efficienti! Sapere come possiamo gestire una situazione che ci crea stress ... diminuisce lo stress!
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Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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