Una delle grandi opportunità di fare psicoterapia con persone di origine straniera è che, per forza di cose, ti mettono di fronte a tutto ciò che è intrinseco della tua cultura: stereotipi, tradizioni, pensieri, significati.
Come se avessi davanti a me uno specchio: si vedono limpide le differenze, i confini, le figure e gli sfondi, quando si decide di osservare con attenzione, e non dare nulla per scontato quando non si cade nel "tanto so già com'è" ma ci si lascia guidare dalla curiosità, anche nei confronti di ciò che si crede di conoscere così bene, e quando si rassicura la propria paura di trovare qualcosa che non ci piace che, male che vada, si può sempre modificare qualcosa.
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Oggi ho avuto un colloquio con un ragazzo originario del Senegal. È sempre un arricchimento per me confrontarmi con una cultura diversa.
Diverso è il modo di concepire il tempo: non come qualcosa da organizzare, programmare, sfruttare al massimo per produrre e fare, ma come qualcosa che inevitabilmente passa ed è al contempo certezza, il sole sorgerà sempre domani. Non si corre il rischio di "sprecare" il tempo, un'ora prima o dopo non cambia. Diverso è anche il modo di prepararsi ad una partenza: solitamente cerchiamo di salutare tutti e tutto, lui ha informato solo i genitori, perché si fa così, per scaramanzia, meglio non attirare il malocchio degli invidiosi. Quante diversità, a volte mi piacerebbe riuscire ad alternare, ad affrontare le giornate e gli eventi con una o l'altra prospettiva. Mi capita spesso, nel mio lavoro con persone migranti che hanno ricevuto o richiesto la protezione internazionale, che si parli di cosa si aspettavano di trovare prima di intraprendere il loro viaggio. Come è facile immaginare, le aspettative sono molto diverse da ciò che si trova. Le lungaggini burocratiche per i documenti, la fatica di trovare un lavoro, le incomprensioni ... tutto costringe ad una attesa forzata e a richiudere i propri sogni in un cassetto. La cosa che mi sorprende è che, indipendentemente dal paese di origine e dalla ragione che ha portato alla migrazione, emerge quasi sempre un forte senso di colpa. Per tutto ciò che non è e che invece si sarebbe voluto. Per non aver fatto abbastanza, per se stessi e per la propria famiglia. Per essere fermi e non riuscire a sfruttare il tempo, che passa ed invecchia. Io sento una forte rabbia verso l'ingiustizia con cui sono costretti a scontrarsi, loro sentono solo una forte rabbia verso se stessi, che li porta a non farsi pace.
Ma quanto è difficile perdonarci? Quando ci addossiamo tutte le responsabilità e tutte le colpe, quanto è difficile riuscire a vedere la situazione da un'altra prospettiva e dirsi che quello che stiamo facendo è davvero l'unica cosa che possiamo fare in quel momento? Articolo dell'Espresso del 15 giugno 2017 Da un estratto di questo interessante articolo, si legge che: “Il vero problema che dobbiamo affrontare oggi riguardo alla salute di chi sbarca sulle nostre coste non è rappresentato dalle gravi malattie infettive e diffusive, la cui incidenza è assai contenuta per il fenomeno del “migrante sano” ormai ampiamente dimostrato dai dati, ma dal disagio psicologico di queste persone” “Dal punto di vista della salute mentale, l’effetto migrante sano tende a esaurirsi rapidamente, già prima dell’arrivo, a seguito delle condizioni spesso estreme in cui il percorso migratorio si compie: coloro che arrivano, donne, uomini e bambini, sono estremamente vulnerabili e manifestano forme reattive quali depressione, disturbi di adattamento, disordini post-traumatici da stress, stati d’ansia” spiega Giovanni Baglio, epidemiologo della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), che continua nell'articolo la sua riflessione. Io aggiungo che negli ultimi trenta anni sono state numerose le crisi umanitarie, conseguenza diretta di guerre e genocidi, che si sono succedute nel tempo e che hanno causato milioni di sfollati e rifugiati in tutto il mondo. Le persone che sono costrette ad abbandonare i loro paesi sono sempre più spesso portatori di sofferenza psicologica. La migrazione, infatti, al di là delle molteplici spinte che stanno alla base di essa e del significato che assumono, rappresenta soprattutto un processo di ridefinizione identitaria che coinvolge le dimensioni più intime della persona: le convinzioni, i valori, il carattere, gli affetti, la capacità di fare progetti per il futuro. Lasciare il proprio paese e andare verso la salvezza significa continuare a pagare un prezzo molto alto: la rottura dei legami familiari, i sensi di colpa o la perdita del ruolo sociale. A questo si aggiungono tutte quelle situazioni stressanti che vengono vissute durante il percorso della migrazione e che possono diventare eventi potenzialmente traumatici, causa di malessere psicologico profondo: si cita ad esempio il subire violenze o torture, vivere in condizioni difficili e provvisorie, la violazione di diritti umani, la mancata integrazione. Nel vissuto della migrazione si vive una serie di fasi: il periodo della solitudine, momento che va dal distacco dal proprio paese alla consapevolezza sulla necessità di modificare la propria visione del mondo; e il periodo della rielaborazione personale nel quale il possesso di strumenti culturali adeguati aiuta a razionalizzare e a orientare proficuamente l'esperienza [C. Mariti, 2003]. E' un processo complesso e delicato, che può non trovare un esito positivo se non si offre un sostegno adeguato, quando il benessere psicologico diventa precario. Tra le capacità personali, la resilienza si configura come un processo che permette di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita, nonostante le situazioni difficili vissute e il probabile esito negativo. Se adeguatamente supportati e alimentati, i processi resilienti, personali e sociali, possono essere alla base della ripresa di fronte alla catastrofe. (Cyrulnik, 2008). La persona logorata e ferita, dal punto di vista psicologico, ricostruisce il suo benessere entrando in relazione con altre persone e sperimentando la sensazione di fiducia, il senso di identità e di competenza. L'essere parte di un gruppo dove possono essere condivise esperienze ed emozioni è spesso una prima tappa per uscire dall'emarginazione e creare legami. I migranti sono soggetti attivi che mettono in campo capacità relazionali, competenze lavorative e professionali, conoscenze culturali, attuando di volta in volta strategie di adattamento alle diverse situazioni che si trovano ad affrontare. È nella narrazione di storie di vita individuali e collettive che la progettualità futura può affiorare. Sono storie di vita che mostrano che il cambiamento è possibile. Storie che devono essere ascoltate. |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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