In terapia, mentre le persone raccontano di sé, capiti che scappi una parolaccia. Alcune persone si scusano, altre chiedono il permesso per dirla, altre ancora si correggono immediatamente trovando un sinonimo che risulti più accettabile.
Ultimamente anche Vera ha detto la sua prima parolaccia. Abbiamo cercato di spiegarle cosa significhi una parolaccia, l'effetto che può fare in chi la ascolta e perché è bene farne a meno. Adesso ogni volta che le diciamo "no" o c'è qualcosa per cui è contrariata, ci dice di "non dire brutte parole". Uno spunto per aiutarla a riconoscere e comunicare ciò che prova nel modo più utile possibile per lei e per stare in relazione. Quanto possono essere potenti le parole, non solo quelle socialmente definite "brutte" ma tutte, quando sono dense di emozioni. Le parolacce ne sono carichissime. E allora, in terapia, io dico alle persone che ho davanti che possono sentirsi libere di dirle, se capita, perché possono aiutare a buttare fuori sfumature di emozioni che poi troveranno il tempo e lo spazio per essere riconosciute, nominate, e comprese. Voi cosa ne pensate? Qual è il vostro rapporto con le parolacce?
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Mi capita spesso, in terapia, di incontrare persone che si portano dentro un grande dolore. Può avere radici più o meno profonde, ma gli artigli affondano sempre nel cuore. E (sempre molto spesso) è un dolore taciuto, tenuto nascosto, a volte non visto. Ogni dolore ha il suo significato, lo si scopre insieme in un lavoro terapeutico che sarà altrettanto doloroso e faticoso. Perché tirarlo fuori tutto, quel dolore nascosto, e vederlo da vicino e legittimarlo agli occhi altrui (per primi quelli del terapeuta), lo fa risuonare ancora più forte. Ma una volta fuori, riconosciuto ed ascoltato, inizia a fare meno paura.
Ho un figlio che, almeno la notte, non piange quando reclama il cibo. Ma si agita, muove le manine, scalcia, fa versi e borbotta come si borbotta quando al ristorante il piatto ordinato tarda ad arrivare.
Poi fa una cosa che mi diverte sempre molto: mi sorride. Quel sorriso sgraziato dei neonati, a bocca aperta e un po'storto, che si vede che ci sta ancora prendendo la mano e che quella dozzina di muscoli coinvolti nel sorriso si sta ancora allenando. Un po' una palestra del ridere, chissà l'impegno che ci mette. E restiamo così, io e lui, per una manciata di secondi, coi nostri sorrisi silenziosi e sguaiati, che a me non tolgono certo le ore di sonno perse e le palpebre calanti, ma me li godo tutti, perché sono semplicemente belli. Allora penso che a volte ci serve proprio qualcuno che sorrida per primo, che faccia lui la fatica di essere felice e che ci resti accanto silenziosamente, non necessariamente per toglierci dai nostri dolori, ma per farci vivere l'effetto che fa. La famiglia è un sistema, ovvero un complesso di elementi connessi l’un l’altro da reciproche relazioni. Questi elementi, pur mantenendo ognuno una propria individualità, nel loro insieme danno vita a un tutt’uno con proprietà nuove e diverse. Le parti della famiglia sono i diversi membri, che tramite le loro azioni contribuiscono a determinarne il suo sviluppo.
L’azione di ogni componente esercita un’influenza sugli altri e sull’intero sistema famigliare, che modifica i suoi equilibri e ne esce trasformato. Questo cambiamento, a sua volta, ha un effetto trasformativo anche su ogni singolo individuo. Fortunatamente una famiglia è in grado di trasformarsi, quando vive momenti significativi (per esempio alla nascita di un nuovo figlio, di fronte ad un lutto o ad una uscita di casa di un componente): tutto il sistema si riorganizza per andare incontro al cambiamento e costruire un nuovo equilibrio. Un lavoro di squadra e del singolo, che seppur complesso ed emotivamente provante, è di fondamentale importanza perché la famiglia continui a vivere come tale. Col l'arrivo del secondo figlio, queste nostre dinamiche familiari mi sono ancora più visibili. Quanta fatica stiamo facendo per fare spazio, fisico e mentale, al nuovo componente. Però quanto ne vale la pena! Spesso associamo il cambiamento all'area semantica del "fare": agire, modificare, mutare, diventare e così via.
Ma capita, e lo si vede bene in terapia, che il cambiamento abbia a che fare con qualcosa di più statico, che appartiene alla nostra storia personale, che è sempre stato lì, visto e saputo, seppur tenuto nascosto, in attesa di essere legittimato e validato da occhi esterni, di essere finalmente riconosciuto come vero e reale. E questo è qualcosa di molto potente, liberatorio e trasformativo ma a volte talmente intenso da fare male. Ecco perché può richiedere un contesto di cura come quello terapeutico. "Vivere non è abbastanza… bisogna avere il sole, la libertà e un piccolo fiore"
Hans Christian Andersen È arrivata ufficialmente l'estate! Un tempo la vivevo carica di aspettative: cose da fare, vacanze, riposo, tempo libero da sfruttare al massimo... con il risultato, facilmente immaginabile, di arrivare a settembre con la lista di cose da spuntare ancora lunga e un sapore in bocca di aspettative disattese, di occasioni perdute, di tempo non vissuto davvero. Non so cosa mi abbia cambiato nel vivere questa stagione. Forse porre lo sguardo sulle altre, provare a non concentrare tutta la mia "felicità" in tre mesi di sole, caldo e libertà ma ricercandola anche in momenti più freddi e "difficili", dentro ad una quotidianità che non sempre lascia spazio ai desideri. Forse pensare che non era la stagione in sé, ma il come mi vedevo io, le priorità che davo ai miei sogni e bisogni, lo spazio e il tempo che mi prendevo per me, che mi facevano sentire bene. E questo per fortuna posso farlo sia in estate sia in inverno. "E un altro consiglio: ponderale bene, le mie domande. Più ti turbano, più cose hanno da insegnarti. Con il tempo scoprirai che questo vale anche per gli interrogativi più importanti della vita"
Tratto dal libro: "Un semplice caso di infedeltà" Ci sono festività, ricorrenze, periodi dell'anno che non sono "per tutti".
Ad esempio la primavera. È la stagione emblema della rinascita, delle temperature che si fanno miti, delle fioriture, del ritorno all'aria aperta ed anche in parte alla socialità. Ma per chi non riesce (e qui non c'entra nulla la volontà) o non può, diventa una vera gabbia, in cui anche le cose ritenute "belle" o per cui si dovrebbe gioire diventano invece dei pugnali. A volte mi capita di indicare a Vera qualcosa da guardare in lontananza. Quando mi accorgo che non riesce a vedere , il gesto più spontaneo è quello di prenderla in braccio e di portarla "alla mia altezza". Ma oggi ho provato a fare il contrario: mi sono abbassata io per cercare l'angolazione giusta affinché potesse vedere ciò che stavo indicando. Su ciò che comporta stare all'altezza dei bambini, credo che ognuno di noi l'abbia sperimentato almeno una volta e sappia cosa significa. Io credo che ciò che lo renda così speciale e difficile al tempo stesso, sia che, per quell'attimo, dobbiamo abbandonare le nostre certezze, il nostro orizzonte. Dobbiamo fare a meno dei nostri punti di riferimento ed assumere che ce ne siano di altri altrettanto validi. E questo implica che dobbiamo contemplare la possibilità di non essere dalla parte "giusta" come pensavamo o che, forse, "giusto e sbagliato" non serva nemmeno in questo caso. Prendere il punto di vista dell'altro significa togliere noi dal nostro centro per metterci l'altra persona e provare a vedere le cose come vengono viste da quella prospettiva.
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Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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