Bertrando, psichiatra e psicoterapeuta sistemico, spiega che "le emozioni si combinano sempre tra loro: una può evocarne un'altra, secondo la personalità degli attori, la loro storia, il modo in cui ciascuna emozione è espressa o taciuta". Ogni emozione sentita o mostrata è una risposta all'emozione mostrata da qualcun altro o ad uno stimolo ambientale e insieme è un messaggio comunicativo, più o meno intenzionale. Gli altri sono a loro volta influenzati dalle emozioni che mostriamo, sviluppano le loro emozioni verso di noi e così via. L'emozione, in una ottica sistemica, diventa così un modo di creare e modulare le connessioni e le relazioni tra persone. Il modo di sentire le emozioni cambia però in relazione al sistema e alla "posizione" che occupo. Infatti, se è vero che c'è una "programmazione biologica" (un aspetto più fisico, genetico e universale) delle emozioni, è vero anche che le emozioni sono modellate e modificate dalle influenze dell'ambiente e, tra queste, quelle culturali sono tra le più importanti" [P.Bertrando,2014]. Ma cosa significa praticamente? A seconda di dove mi trovo, del mio ruolo e delle persone che ho davanti, potrò avere reazioni emotive diverse. Immaginando ad esempio di guardare un film con amici: la stessa scena potrà suscitare emozioni diverse in ognuno dei partecipanti. O ancora, la mia sorpresa di fronte ad un regalo sarà connotata in modo diverso se il regalo proviene dal mio partner o da un collega di lavoro. Così come la mia reazione emotiva ad una ingiustizia sarà diversa a seconda del luogo in cui mi trovo e da chi agisce l'azione. Ci sono poi emozioni che, a seconda del contesto culturale, vengono considerate più o meno lecite. La "vergogna" è una emozione molto sentita in Giappone, mentre nelle culture più occidentali viene quasi bandita e diventa sinonimo di debolezza e negatività. Anche questa variabile culturale influenza la nostra espressione delle emozioni. Sergio Aragones, nelle sue vignette "The shadow knows", mostra molto bene un altro aspetto interessante. A volte cerchiamo intenzionalmente di mascherare o forzare alcune emozioni, altre volte non ne siamo semplicemente consapevoli. Capita quindi di ritrovarsi nelle contraddizioni, o di non sentirsi a proprio agio, o di sentire che qualcosa non va ma non riuscire a capirne il motivo.
Nel percorso terapeutico, l'attenzione al mondo emotivo è importante per un trattamento più efficace e completo. E' nel dialogo tra paziente e terapeuta che si creano le possibilità di cambiamento nella posizione emotiva.
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Il circo della farfalla (The Butterfly Circus) è un cortometraggio del 2009 diretto da Joshua Weigel, che racconta la storia di Will, un giovane privo di arti dalla nascita. Dopo essere stato un fenomeno da baraccone in un circo, entra per caso a far parte di un'altra compagnia circense, quella di Mr. Mendez. Mr Mendez però è di poche parole e poche spiegazioni: gli impedisce di esibire la sua deformità. E così Will si ritrova senza un ruolo, come uno spettatore estasiato e sconvolto al tempo stesso: e' difficile infatti trovare un ruolo quando nessuno ha insegnato un modo diverso di vedersi e di vedere le proprie “deformità”. Con il passare dei giorni, Will scopre che esiste un mondo nel quale ci si può mettere in mostra non per i propri limiti, ma per le proprie risorse. Un mondo nel quale le competenze sono molto più importanti delle mancanze, un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. E quando Will chiederà come farà uno come lui, al quale Dio ha voltato le spalle, a trovare un modo nuovo di vedersi, Mr Mendez risponderà : "Più grande è la lotta, più glorioso è il trionfo". Blake osservò che “una lacrima è una cosa intellettuale”. Corpo e mente infatti non sono entità separate ma un tutt’uno integrato, sin dalla nascita. Il corpo esiste nel tono di voce, nei movimenti, nelle posizioni, perfino nei silenzi. Con il corpo si parla, anche se a volte in modo implicito o inconsapevole. Possiamo dire che il corpo è sempre presente nelle nostre relazioni e nei processi comunicativi. Gaber, descrivendo i sintomi della schizofrenia nella canzone "L'elastico", canta così, a proposito di mente e corpo: Mi ricordo che correvo Le recenti scoperte delle neuroscienze (Damasio, Rizzolatti) rendono sempre più evidente che i meccanismi “mentali” non controllano tutto il nostro “funzionamento”, ma che, al contrario, esiste una connessione tra tutti gli elementi psico-corporei, quindi cognitivi, emotivi, motori, sensoriali, endocrini. Esiste addirittura una “memoria corporea” costituita da tracce permanenti delle esperienze passate nelle posture ripetitive e abituali, nelle alterazioni permanenti delle soglie percettive, nelle modificazioni croniche del tono muscolare di base, nei movimenti scolpiti e irrigiditi nel tempo, nell’alterazione della respirazione. Alcune ricerche (Weiss 1993) hanno messo in evidenza che carenze nel rapporto con la madre hanno effetti neuroendocrini significativi che si manifestano, anche a distanza nel tempo, anche quando si è adulti, nella nostra capacità di reagire di fronte ad eventi stressanti. Altri studi (Siegel 1999) sostengono che i circuiti cerebrali si sviluppano con modalità che dipendono dal tatto: le esperienze senso-motorie positive possono consolidare connessioni neuronali esistenti, indurre nuove sinapsi, evitare che sinapsi e neuroni non utilizzati vengano eliminati e “potati”; possono influenzare persino la velocità di conduzione dei segnali elettrici. A volte però sperimentiamo una mancata integrazione e comunicazione tra psiche e corpo che può tramutarsi in disagio e difficoltà. Gaber le canta così: Dio, che senso di paura Risulta quindi evidente che non è più possibile pensare a un intervento terapeutico sulla persona che non prenda in considerazione i due livelli, quello più prettamente psicologico e quello corporeo/fisico. Intervenire direttamente sul corpo non è né facile né semplice ma è qualcosa di articolato ed estremamente delicato. Si tratta di modificare concretamente il modo di muovere il corpo, di “stare”, di posizionarsi, di comunicare ed esprimere vissuti ed emozioni. E’ attraverso questi nuovi concetti che si può guardare alla persona e alla relazione di cura, con sempre maggiore consapevolezza, nella sua totalità e complessità. L’adolescenza, più delle altre fasi del ciclo di vita, è stata definita un periodo di transizione, caratterizzato da cambiamenti fisici, intellettivi, affettivi e sociali.
Rappresenta una fase critica e delicata per l’intera famiglia che ora, ancora più che nelle fasi precedenti, deve affrontare il delicato compito di integrare la legittima esigenza di indipendenza ed autonomia dei figli con la coesione degli affetti e con la negoziazione di nuove regole di rapporto [Camaioni, Di Blasio]. L’attenzione al ciclo di vita della famiglia si concretizza nel considerare l’adolescenza sia come un’impresa evolutiva congiunta di genitori e figli [Scabini, 1995] sia un periodo della vita caratterizzato dalla trasformazione dei legami precedenti. L'adolescenza di un figlio rappresenta un evento "critico" per tutto il sistema famigliare che è chiamato a confrontarsi con la necessità di realizzare un percorso che richiede anche ai genitori di riconsiderare la loro stessa adolescenza, di gestirne gli aspetti irrisolti e di riuscire a conciliare contenimento e flessibilità nell'aggiustamento delle distanze e nella ridefinizione dei confini e dei ruoli generazionali. Due sono i processi importanti in questa fase che si intrecciano tra loro: l’individuazione, propria dell’adolescente, che si esprime nella tendenza ad autonomizzarsi dai legami familiari e la differenziazione, propria dell’organizzazione familiare, dalla quale dipende il maggiore o minore grado di flessibilità nel consentire l’indipendenza dei suoi membri. L’adolescente che inizia a prendere le distanze dalle figure genitoriali avvia un processo di identificazione forte che lo porta a rinnegare in parte le identificazioni precedenti, sostanzialmente di tipo genitoriale, per cercare altrove figure identificatorie; queste lo aiuteranno a costruirsi un’identità propria, anche a partire dall’eredità genitoriale, ma ricomposta sulla base delle esperienze significative vissute autonomamente. Per avviare tale processo è necessario separarsi da chi fino ad oggi ha di fatto occupato la scena familiare. Ciò avviene attivando movimenti di allontanamento dai genitori, fisico e psichico, rinegoziando routine, regole ad abitudini consolidate nell’infanzia, modificando ruoli e mansioni più funzionali all’adolescente che sta cercando di transitare all’età adulta [Confalonieri, Gavazzi]. Quello compiuto dall’adolescente è allora un processo di “separazione psicologica” rispetto all’ambiente familiare e di ridefinizione della sua propria personalità [Tonolo, 1999]. Forte è quindi l’ambivalenza che caratterizza e direziona il legame fra genitori e figli: quello che si configura è un movimento di entrate ed uscite volontarie che l’adolescente compie per rispondere ai bisogni emancipativi ed evolutivi che avverte e contemporaneamente per garantirsi il rientro a casa e la sicurezza di essere ancora protetto. Garantire al figlio la possibilità di allontanarsi significa consentirgli di abbandonare una definizione di sé ancora infantile e costruirne una nuova a partire dalle esperienze che in autonomia sta compiendo, basate su desideri e bisogni, non più necessariamente congruenti con quelli dei genitori, da cui però si aspetta e chiede conferma e supporto. L’attaccamento ai genitori continua quindi a garantire la sicurezza, la “base sicura” nelle circostanze di vulnerabilità, paura e stress della vita quotidiana, soprattutto nelle nuove esperienze che l’adolescente si trova ad affrontare. Questo processo può portare a generare conflitti, normativi o valoriali, tra genitori e figli. Ma è solo attraverso il confronto, anche aspro e vivace, che si avviano quei processi di ristrutturazione dei rapporti familiari necessari per sostenere e promuovere la nuova fase del ciclo di vita familiare che comporterà la conquista dell’autonomia del figlio. Grazie ai conflitti e alla loro soluzione, l’adolescente apprende importanti abilità sociali e socio cognitive quali ascoltare, considerare le opinioni altrui, riflettere, unire punti di vista, venire a compromessi e negoziare. L’importanza del ruolo dei genitori, rispetto a quello svolto dai pari o da altre persone significative, viene ribadito anche nelle ricerche che hanno preso in esame alcune circostanze difficili o particolari nelle quali possono trovarsi i figli, ad esempio problemi psicologici, malattie fisiche, lutti. In questi casi è ancora più evidente che i genitori assumono un insostituibile ruolo protettivo, offrendo attenzione, affetto e incoraggiamento e riducendo l’effetto negativo di eventi di vita delicati o difficili e si configura come un fattore decisivo nello sviluppo della capacità dell’adolescente di far fronte ad eventi stressanti futuri [Hauser et al. 1985]. A cura di docsity.com, su cui potrai trovare altri articoli e suggerimenti per ottimizzare lo studio.
Grandi e bambini: settembre è il mese in cui si ricomincia a studiare. Talvolta però apprendere cose nuove può risultare difficile e faticoso.
Sul sito studio.efficacemente.com, Andrea Giuliodori spiega come ognuno di noi abbia un peculiare modo di studiare, a seconda dello "stile cognitivo" che lo caratterizza. Per stile cognitivo si intende la modalità di apprendimento, di funzionamento e di organizzazione delle conoscenze. Eseguendo il breve test presente sul sito, potete scoprire qual è il vostro stile cognitivo ed avere a disposizione dei consigli sul metodo di studio più efficace per voi. Il linguaggio svolge una funzione di intermediazione fra gli individui e la società. Non è solo un sistema di comunicazione, ma anche un sistema di rappresentazione sociale e, come tale, esercita un’enorme influenza nel modellare il modo in cui noi vediamo il mondo, ossia come costruiamo la nostra realtà, che significato le attribuiamo.
La realtà infatti non è semplicemente un «dato di fatto» a cui noi abbiamo accesso diretto. Il nostro modo di comprendere la realtà è qualcosa che dobbiamo «costruire» basandoci, almeno in parte, sulla nostra soggettiva percezione del mondo. Questa percezione è inevitabilmente diversa da un individuo all’altro, ma tuttavia ha anche vari elementi di uniformità, dato che ha una base sociale: infatti, essa è in buona parte modellata dalla cultura cui l’individuo appartiene. Non possiamo però dare per scontato che il modo in cui una persona vede il mondo sia lo stesso del modo in cui invece lo vedono altri: possono essere visioni enormemente diverse o incompatibili.. Dunque, per riuscire a relazionarci con gli altri, dobbiamo tenere conto di come ciascuno di noi vede e vive ciò che ci circonda. Il significato che le persone danno a ciò che accade è molto importante. Le nostre conoscenze influenzano le nostre azioni, e ciò che facciamo influenza a sua volta le nostre conoscenze. Questo vale sia a livello individuale sia a livello sociale. Pensiamo ai professionisti del marketing e della pubblicità che, con le parole (e le immagini), riescono a creare mondi e realtà desiderabili sollecitando i nostri acquisti; oppure riflettiamo su quanto le parole e i termini che troviamo in un articolo di giornale influenzano il nostro pensiero in merito a quel tema e di conseguenza il nostro modo di agire. Ovviamente questo processo può essere più o meno consapevole ed intenzionale. Tutto ciò ha una notevole importanza anche in relazione a come consideriamo i problemi sociali. I problemi sociali non esistono di per se stessi, sono invece socialmente costruiti. Ad esempio: Per secoli, l’alcolismo è stato considerato un «vizio»: secondo questa prospettiva, l’alcolista ha problemi con il bere perché è un amorale. Una tipica risposta al vizio dell’alcolista è stata, in passato, la prigione. L’idea dell’alcolismo come vizio è all’origine dei sentimenti di colpa e di vergogna che vive una famiglia con problemi alcolcorrelati, che con difficoltà manifesta la propria situazione e chiede aiuto. La società, parallelamequelnte, emargina la famiglia. Dal secolo scorso, si è fatta strada un’altra concezione dell’alcolismo, che lo considera come una «malattia». Questa modalità di vedere l’alcolismo è stata utile, perché le persone con problemi alcolcorrelati sono state trattate alla stregua di altri malati da curare e non più come viziosi da punire. Nello stesso tempo, però, ha portato a una deresponsabilizzazione della persona, della famiglia e della società in generale: se è una malattia, nessuno è responsabile. Il lavoro degli operatori sociali e degli psicologi non consiste soltanto nel fornire servizi «oggettivi», ma anche nell’entrare in relazione con le conoscenze soggettive delle persone. Il migliore aiuto che possiamo dare alle persone consiste nell’accompagnarle a ri-negoziare le attribuzioni di significato di alcuni aspetti della loro vita, a narrare quindi una nuova storia. Che impatto hanno le relazioni sociali sul nostro benessere fisico? spunti tratti dall'articolo Katerina Johnson, ricercatrice dell'Università di Oxford, mentre studiava il ruolo dell'endorfina nel facilitare i legami sociali, ha scoperto una correlazione tra tolleranza al dolore e numero di amicizie.
Sembrerebbe infatti che le persone che si sono costruite una larga cerchia di veri amici hanno anche una soglia più alta di sopportazione del dolore. Tollerano meglio gli stimoli dolorosi grazie all'endorfina, un oppioide naturale con affetto analgesico, prodotto dall'organismo e coinvolto nel circuito del benessere psico-fisico. Secondo alcune teorie le interazioni sociali generano emozioni positive quando l'endorfina si lega ai recettori nel cervello. Quello che Johnson voleva dimostrare era che l'endorfina si fosse evoluta non solo come anestetico naturale dell'organismo, ma anche per aumentare il piacere generato dalle interazioni sociali, essenziali alla sopravvivenza umana. La ricerca: I ricercatori hanno chiesto a 101 volontari tra i 18 e i 34 anni di rimanere con la schiena appoggiata al muro e le gambe piegate ad angolo retto rispetto al tronco più a lungo che riuscissero (un esercizio piuttosto doloroso). I soggetti hanno anche dovuto rispondere ad alcune domande sulla propria rete di amici, e sulla frequenza dei contatti con essi. A parità di età e allenamento, le persone con più amici - in particolare, con più amici che sentivano con cadenza mensile - hanno resistito al dolore più a lungo. In media, ogni aumento di 7-12 amici rispetto alla cerchia primaria di relazioni (quelle familiari) fa aumentare la resistenza al dolore da 1 a 4 minuti. Al momento non è chiaro se l'abbondanza di legami sociali stimoli la produzione di endorfina, e quindi la resistenza al dolore, o se al contrario coloro che hanno un sistema endorfinico più attivo (forse per fattori genetici) traggano maggiore piacere dalle relazioni amicali, e quindi hanno più amici. Non si capisce, in pratica, quale sia la cause e quale l'effetto. La ricerca potrà avere ricadute importanti negli studi sui disturbi dell'umore <<Recenti studi suggeriscono che parte del sistema endorfinico possa essere danneggiato in disagi psicologici come la depressione - spiega Johnson - questo potrebbe spiegare perché spesso le persone depresse non sembrano provare piacere, e si isolano dai rapporti sociali>>. Io aggiungo che, più in generale, la ricerca mette in luce come benessere "fisico" e "mentale" siano strettamente interconnessi, indipendentemente da quale sia la causa e quale l'effetto. Nella relazione di cura di una persona, i due aspetti non possono essere presi e considerati singolarmente, ma occorre metterli in comunicazione tra loro in un'ottica sistemica. |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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