Ciò che mi piace della cucina è l'atto creativo.
Gli stessi ingredienti, combinati in modo diverso, creano risultati diversi. Qui abbiamo usato lo stesso impasto del pane naan per realizzare dei dolcetti, aggiungendo cannella, zucchero, mele e mirtilli rossi essiccati. Antonietti e Cesa Bianchi sottolineano l'importanza della creatività nella vita di tutti i giorni, affermando che: “In un mondo sempre più rigidamente regolato da leggi e da limiti, la creatività rappresenta uno spazio di libertà concessa all'uomo []. La creatività, intesa nelle sue implicazioni scientifiche, è la condizione che consente alla persona di conservare la propria identità, di riconoscersi attraverso le proprie espressioni non condizionate dall'ambiente in cui vive.” (Antonietti, Cesa Bianchi, 2003) Siete d'accordo?
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Essere una psicologa non mi esime dall'essere una mamma che commette errori: a volte mi capita di alzare troppo la voce, altre volte non riesco ad ascoltare o aspettare.
Anche se conosco bene cosa succede quando si urla ai propri figli. Li inseriamo dritti dritti in una dimensione di paura, dove la persona che dovrebbe proteggerli e consolarli è la stessa che li sta "minacciando". Si sentono persi e vulnerabili, senza capire cosa fare. I nostri figli in quella situazione non apprendono un bel niente. Non interiorizzano la regola, la morale, il comportamento più consono, ma imparano qual è il modo per proteggersi ed uscire dallo stato di paura: ovvero fare ciò che il genitore chiede. Teniamo bene in mente che quando alziamo troppo la voce, quando sgridiamo in modo "aggressivo" (non quando siamo autorevoli, ben inteso), lì ci stanno soprattutto i nostri bisogni. Quando mi succede, mi fermo. Cerco di ritornare indietro, a cosa stava succedendo, provo ad indovinare e a verbalizzare come sta mia figlia, riprovo nuovamente usando altre parole, cerco di non avere fretta. Adesso che è più grandina, chiedo la sua collaborazione. Spesso chiedo scusa. Perché credo che per mia figlia sia più importante vedere una mamma che si migliora invece di una mamma perfetta. E se chiamassimo un incrocio "quadrivio "? Lo guarderemmo con occhi diversi? La prospettiva cambierebbe?
Incrocio mi fa pensare ad un incontro, focalizza la mia attenzione sul centro, dove le strade si fondono diventando per un momento uno spazio unico. Quadrivio sposta la mia prospettiva sulle quattro strade, invita l'occhio ad andare oltre, verso le quattro direzioni percorribili. Ecco perché le parole sono importanti, creano la realtà. L'estratto fotografato è del libro "Sedici parole" di Nava Ebrahimi Nessuna perdita (che sia un lutto o una separazione) è uguale all'altra. C'è chi perde un genitore, un amico, un nonno, un partner, un figlio. Ciascuna perdita si differenzia dall'altra perché diverso è il significato che quella relazione e quella perdita hanno per la persona.
Ma tutte le perdite si assomigliano per il fatto che tolgono un pezzetto di noi. Obbligano a passare dal dolore di lasciare andare, dalla fatica di risistemare quel vuoto lasciato, dalla paura di immaginarsi un futuro (con dentro noi stessi) diverso. Nessuno vorrebbe passarci attraverso, eppure è il modo per ritornare a stare bene, per far sì che le nostre energie non vengano impiegate per far restare tutto così com'è immobile, ma permettano di andare avanti. Secondo Gordon Shepard i cibi non contengono il sapore. Ciò che in realtà contengono sono le molecole odorose, ed è poi il cervello a "creare" il sapore.
Attraverso intricati processi, tutti i sensi contribuiscono a definire il gusto. Durante i processi di scelta e di consumo dei cibi, entra in campo anche il sistema nervoso centrale, con quella che può essere chiamata "memoria del gusto". Che non richiama solo le percezioni dei sensi, ma anche ricordi, persone, relazioni. Ed ecco che un cibo ci lascia l'amaro in bocca ed un altro ci abbraccia calorosamente.
Spesso chi arriva in terapia mi chiede se è grave, che malattia ha, se potrà guarire. Dare un nome a ciò che fa soffrire può essere un bisogno: se lo conosco, posso curarlo, fa meno paura.
La verità è che a volte non c'è una vera e propria malattia classificabile secondo i manuali. Le etichette e i nomi che si danno ai comportamenti e che li fanno rientrare in determinate casistiche cliniche e quindi diagnosi, spesso servono più ai terapeuti, per orientarsi, per fare ipotesi. Cerco sempre di porre luce, più che sul nome di qualcosa, sul come si manifesta, sulle dinamiche che hanno portato ad oggi, sugli effetti che ha per la persona e per le sue relazioni. Perché posso etichettare con lo stesso nome un sintomo simile, ma non posso dimenticare che la specificità della persona gli farà acquisire un senso diverso da quello di un altro. |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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