Una delle tante cose che si fa in terapia è parlare, osservare, dare senso, sentire le proprie emozioni. E non riguarda solo chi in terapia ci va, ma anche (e forse soprattutto) lo psicoterapeuta.
Quando lavoro in terapia non divento una fredda macchina, per fortuna! Sono sempre in contatto con ciò che sto provando perché ciò che sento mi è di grande aiuto per fare ipotesi sulla relazione terapeutica e sul problema che la persona mi porta. Come succede a tutti anche nella vita di tutti i giorni, a volte stare e capire le proprie emozioni è facile, altre volte più complesso. Ieri ad esempio, mi è stato davvero difficile convivere che una emozione provata in terapia e che ha risuonato in me tutto il giorno. Ho faticato a giocare con mia figlia, ad essere davvero presente con lei, perché testa e cuore erano da un'altra parte. Ho dovuto fermarmi, guardarla con più attenzione, cercare di capire qual era il senso all'interno di quella specifica relazione terapeutica, per il paziente e per me, e riflettere su cosa mi stava comunicando. Un bel lavorio che non è stato fine a se stesso ma di grande aiuto per continuare la terapia nel prossimo incontro. Non lo avessi fatto, avessi ributtato indietro ciò che sentivo, non avrei potuto essere "terapeutica". Perché oggi scrivo questo? Perché stare nelle proprie emozioni, soprattutto quelle scomode, non è cosa da poco. Anche per gli "addetti ai lavori" che conoscono come si fa, ci può voler tempo e impegno. Lo sappiamo bene quando vi chiediamo e vi accompagniamo nel farlo. Così come sappiamo che è proprio questo processo a darci la possibilità di svoltare, di procedere e di stare meglio.
0 Comments
La rabbia è forse, tra le emozioni, quella più bistrattata. Viene mal vista socialmente perché spesso associata all'aggressività, che invece è un comportamento e può essere messo in atto a seguito di diverse emozioni, non solo della rabbia. E di rabbia, durante questo anno di pandemia, ne abbiamo provata e vista tanta. 👉🏻Non poter vedere i propri cari e gli amici, non poter essere liberi di fare ciò che eravamo abituati a fare, vedere le conseguenze del virus e delle scelte politiche nella propria vita e in quella della propria famiglia a tutti i livelli (individuale, sociale, economica ecc). 👉🏻 Può capitare spesso di pensare "non è giusto", "perché?" e subito sentiamo la necessità di trovare delle motivazioni o un "colpevole" verso cui indirizzare la nostra rabbia. 👉🏻Ci sentiamo attivati, la testa è annebbiata, la voglia di muoversi, di scagliare qualcosa a terra, di prendere a pugni, anche di fare male. 👉🏻La rabbia è una emozione potentissima e la sentiamo così forte, così istintiva perché ha proprio a che fare con noi stessi, con i nostri confini, con la nostra sopravvivenza. Proviamo rabbia quando i nostri bisogni non sono soddisfatti o sentiamo che l'altro ha invaso un confine nostro, senza rispettarlo. 📝 Psicoesercizio Quando sentiamo arrivare la rabbia, fermiamoci qualche minuto. E ascoltiamola, senza passare subito ad una azione/reazione. Qual è il bisogno che ci sta dietro? Quale aspetto di me vedo calpestato? Quali dei miei confini (materiali, relazionali, temporali) sento che non sono rispettati? Cosa sento che mi manca e che vorrei? Cosa puoi fare tu per quel bisogno? “Quando ti arrabbi, ritorna a te stesso e prenditi molta cura della tua rabbia. Quando qualcuno ti fa soffrire, ritorna a te stesso e prenditi cura del tuo dolore, della tua collera.” THICH NHAT HANH Nel libro "I miserabili" Victor Hugo scriveva “L'oscurità dà le vertigini. L'uomo ha bisogno della luce: e chiunque si tuffi nell'opposto della luce si sente il cuore stretto. Quando l'occhio vede nero, la mente vede confuso; nell' eclisse, nella notte, nella caliginosa opacità v'è l'ansia, anche per i più forti.” E' molto frequente che in questo periodo di pandemia si provi ansia, apprensione, panico, preoccupazione, timore, sgomento, a volte addirittura terrore ed angoscia. Le raggruppo sotto lo stesso cappello, poiché possiamo vederle come sfumature dell'emozione base PAURA. Sono emozioni collegate al futuro, che ci comunicano qualcosa su come noi stiamo immaginando, visualizzando, ipotizzando e vivendo l'arrivo del "domani". Partiamo, come per lo sconforto, dal primo punto, ovvero capire meglio la situazione. Quali caratteristiche sono connesse con la nostra emozione? Può essere l'alto numero di morti e di contagiati o la mancanza di soluzioni definitive ed efficaci una volta per tutte. O ancora la persistenza del virus e la sua rapida diffusione a livello mondiale, con il blocco di tante attività e relative conseguenze. I pensieri che si fanno strada possono richiamare allora il tema della morte, della propria e di quella delle persone a cui vogliamo bene, ma anche più in generale il tema dell'incertezza, dello sconosciuto, del non sapere cosa ci potrà accadere, cosa ci attende. Tutto ci sembra fuori il nostro controllo. La morte è per definizione qualcosa che non conosciamo, che non possiamo prevedere né controllare, è il vuoto, il nulla, il buio. Ecco allora che il nostro corpo reagisce alla paura, in due differenti modalità. Può o immobilizzarsi o attivarsi. Sono due reazioni che osserviamo anche negli animali: ci sono prede che fingono di essere morte per scampare al predatore e altre che invece fuggono. Nel primo caso, può essere utile seguire i suggerimenti dati per lo sconforto: muovere il corpo, che può essere ballare, fare qualcosa con le mani, camminare, o anche solo scrivere. Nel secondo caso, il corpo reagisce nel modo apposto: si sta preparando alla fuga, quindi i battiti aumentano, il respiro è affannoso, le gambe iniziano a tremare. Possiamo allora cercare qualcosa che rallenti questi cambiamenti, che rilassi i muscoli e il respiro: ad esempio ascoltare musica rilassante, leggere, osservare delle immagini piacevoli, provare qualche esercizio di respirazione, preparare una tazza di té o di latte (dall'aspettare che l'acqua bolla al sorseggiarla lentamente). Arrivati fino a qui, possiamo allora domandarci cosa queste sfumature di paura ci stanno comunicando. Ci stanno dicendo di fare attenzione, che i rischi sono molto alti, soprattutto per la sensazione che sia tutto fuori il nostro controllo. Di fronte al vuoto, all'indicibilità del futuro, la nostra mente ci prefigura gli scenari peggiori, affinché possiamo arrivare preparati ad affrontarli. Se non avessi timore di bruciarmi e non pensassi che con la teglia in forno potrei scottarmi, difficilmente prenderei la presina. In questo senso la paura è molto utile, dobbiamo ascoltarla, altrimenti rischieremmo sempre grosso. E' quando però gli scenari peggiori non lasciano il minimo spazio ad altro che diventa difficile. Vi suggerisco allora un esercizio, per allenarci a vedere altri scenari. Dobbiamo fare appello alla nostra curiosità. Andare alla ricerca di quelle cose che il futuro potrebbe avere in serbo per noi e riprenderci il controllo su quelle. Piccole o grandi cose, tutto va bene. Potrei vedere un futuro in cui posso decidere come organizzare del tempo gratificante a casa. Potrei immaginare un domani in cui metto in atto dei comportamenti che mi proteggono e proteggono i miei cari. Potrei pensare a come mi potrebbe servire per affrontare al meglio il futuro (riprendendo la metafora di prima, quali presine potrei usare per proteggermi dal calore del forno). Posso anche pensare di ammalarmi o che si ammalino le persone a me vicino ma che saprò quali risorse attivare per gestire quel momento doloroso. Posso immaginare come sarà la ripresa, quali primi passi concreti potrò, vorrò, dovrò fare per risalire dal fondo. Provare insomma a creare diversi "poi" a partire da un "ora" che ci fa paura. “L'ansietà è lo spazio tra 'ora' e 'poi'.” ![]() Questi rami stanno disperatamente cercando di abbracciarsi o di lasciarsi? Quale che sia la loro intenzione, se fossero una coppia in terapia, mi piacerebbe chiedere loro: cosa vedete? Cosa provate in questo momento, ad essere in questa posizione? Siete comodi o scomodi nelle emozioni che sentite? Sono domande che possiamo porci tutti, anche ogni giorno, soprattutto quando ci troviamo in una situazione di "crisi" e scegliere il passo da fare può essere molto difficile. Dopo una giornata di lavoro, al mio ritorno, Vera mi ha accolto con queste bacche di agrifoglio e margherite raccolte in giardino insieme alla nonna. Un regalo per me, che sorpresa bellissima!
Ai bambini capita spesso di pensare ai genitori quando sono lontani: perché ne sentono la mancanza e hanno bisogno di sentire la loro base sicura. Ci pensano perché per loro siamo importanti. Che, in fondo, è anche il bello di fare un regalo a qualcuno: ritagliarsi uno spazio fisico e mentale in cui si pensa alla persona, alle cose che la caratterizzano, che le piacciono, ai suoi bisogni e desideri. Spesso ci dimentichiamo che possiamo fare dei regali anche a noi stessi, al di là degli oggetti materiali. Possiamo fermarci e dare ascolto ai nostri bisogni. Possiamo imparare a dire sì/no quando davvero lo sentiamo. Possiamo fermarci e concederci del tempo in attesa o accelerare se ci sembra il caso. Possiamo imparare a conoscerci meglio, soprattutto ciò che non ci fa stare bene e riconoscere le dinamiche relazionali che sono per noi poco funzionali. Possiamo prenderci cura di noi, nella nostra interezza. Possiamo perdonarci quando ci sentiamo in colpa e fare il possibile per migliorarci. Pensiamoci e regaliamoci come se lo facessimo per la persona più importante per noi. Vera ha festeggiato due anni! Il giorno del suo compleanno tutte le attenzioni erano per lei: sul suo volto si poteva scorgere un misto di contentezza, stupore ed imbarazzo per essere al centro della scena. Ma il punto è che ricevere attenzioni fa stare bene. Ci sentiamo importanti, amati e di valore. Ecco perché spesso le ricerchiamo dalle persone che amiamo e che ci sono vicine. I bambini chiedono spesso di essere "visti", e chiamano i genitori a gran voce fino a quando non constatano che davvero i loro occhi sono puntati su di loro. Cosa succede però se i genitori non li guardano? Se alla fine sentiamo di non essere visti dalle persone che amiamo? La risposta la conosciamo tutti: si soffre. Ci sentiamo brutti, sbagliati, non amati, soli, senza valore. A volte riusciamo subito a far sorridere nuovamente il nostro cuore, altre volte ci vuole più tempo e più fatica, con il rischio di continuare a soffrire senza sapere nemmeno bene perché. Certo non possiamo indirizzare a piacimento verso di noi le attenzioni dell'altro ma possiamo fare come i bambini ed iniziare a dirlo a gran voce a noi stessi che ne abbiamo bisogno, per trovare così il modo migliore per stare bene.
Nonostante mal sopporti il freddo, la neve mi piace proprio. Così soffice, candida e capace di trasformare qualsiasi paesaggio in una scena magica da fiaba. Passati gli anni da pendolare in cui pochi centimetri di neve rendevano un'avventura raggiungere la scuola o il luogo di lavoro in tempi ragionevoli, ora riesco ( quasi sempre) a godermi la neve in tutta tranquillità da casa. Una meraviglia per me!
La pioggia ha già sostituito la neve in questi ultimi giorni ma, reduce dall'atmosfera che mi ha lasciato la vista dei paesaggi innevati, vorrei proporvi un esercizio per i giorni che ci attendono prima dell'arrivo del Natale, una sorta di calendario dell'avvento in versione "psico"! Mi capita spesso, nel mio lavoro con persone migranti che hanno ricevuto o richiesto la protezione internazionale, che si parli di cosa si aspettavano di trovare prima di intraprendere il loro viaggio. Come è facile immaginare, le aspettative sono molto diverse da ciò che si trova. Le lungaggini burocratiche per i documenti, la fatica di trovare un lavoro, le incomprensioni ... tutto costringe ad una attesa forzata e a richiudere i propri sogni in un cassetto. La cosa che mi sorprende è che, indipendentemente dal paese di origine e dalla ragione che ha portato alla migrazione, emerge quasi sempre un forte senso di colpa. Per tutto ciò che non è e che invece si sarebbe voluto. Per non aver fatto abbastanza, per se stessi e per la propria famiglia. Per essere fermi e non riuscire a sfruttare il tempo, che passa ed invecchia. Io sento una forte rabbia verso l'ingiustizia con cui sono costretti a scontrarsi, loro sentono solo una forte rabbia verso se stessi, che li porta a non farsi pace.
Ma quanto è difficile perdonarci? Quando ci addossiamo tutte le responsabilità e tutte le colpe, quanto è difficile riuscire a vedere la situazione da un'altra prospettiva e dirsi che quello che stiamo facendo è davvero l'unica cosa che possiamo fare in quel momento? Vera ha iniziato l'asilo nido. Come capita con tutti i nuovi inizi, a qualsiasi età, si sperimenta un miscuglio di emozioni diverse. Probabilmente la paura per quel "vago" che ci aspetta, è quella meno facilmente gestibile. Se per i bambini lo sappiamo bene e ci premuriamo di organizzare un inserimento graduale, rispettando i loro tempi, per noi adulti la faccenda è diversa. Nascondiamo quella paura, perché forse ci hanno insegnato così, che non bisogna averne. Non ci ascoltiamo e a volte forziamo i tempi senza rispettare i nostri bisogni. Se non riusciamo subito, ecco che ci sentiamo sbagliati, incompetenti e fallimentari. Agli adulti non sono permessi "inserimenti graduali", metaforicamente parlando. Se nella pratica non sono fattibili, possiamo però ritagliarci un po'di tempo per fermarci a riflettere sull' "inserimento" di cui avremmo bisogno. Ecco un esercizio!
Quando sono diventata mamma, mio papà già non c'era più. Capita spessissimo che io me lo immagini in veste di nonno: penso a quello che direbbe, a come giocherebbe, alle risate e agli abbracci che darebbe a sua nipote. Purtroppo è tutto nella mia testa eppure ... non c'è assenza. Perché ci sono i ricordi, ci sono i sogni, ci sono le coincidenze che mi piace pensare non siano solo un caso. Ci sono le sensazioni, le foto, i consigli dati allora, forse non ascoltati, ma che riaffiorano adesso nel momento del bisogno. Perdere qualcuno è dolore e lacrime, anche a distanza di anni: cambia forma ma resta. Riuscire a sentirne la presenza, invece, nonostante il vuoto fisico, ha in sé un qualcosa di "magico". Ed è per questo che quando sento il vento soffiare, come il giorno in cui se ne è andato e come quello in cui sono diventata mamma, o quando vedo una farfalla bianca svolazzare sui miei fiori, dico a mia figlia "è il nonno". Sant'Agostino scrisse che i morti "non sono assenti ma sono esseri invisibili". Chi ha perso una persona cara sa quanto doloroso e faticoso può essere continuare la vita senza averla più accanto. La mancanza resta l'unica costante nel tempo che passa ma per oggi, con questo psicoesercizio, vi invito a soffermarvi sulla presenza. Mi farebbe piacere condividere i vostri commenti o le vostre esperienze. Ecco un libro che parla di famiglia e di come siamo semplici anelli di una catena di generazioni. Spesso diventiamo vittime di eventi e traumi già vissuti dai nostri antenati. E' l'inconscio familiare: la storia che altri hanno scritto per noi.
Anne Ancelin Schutzenberger, terapeuta ed analista con oltre cinquant'anni di esperienza, spiega nel libro "La sindrome degli antenati" [1993-Di Renzo Editore] il suo originale approccio psicogenealogico. "La vita di ciascuno di noi è un romanzo. Voi, me, noi tutto viviamo prigionieri di un'invisibile ragnatela di cui siamo anche tra gli artefici. Se imparassimo ad afferrare, a comprendere meglio, ad ascoltare e a vedere queste ripetizioni e coincidenze, l'esistenza di ciascuno di noi diventerebbe più chiara, più sensibile a ciò che siamo e a ciò che dovremmo essere. Ma è possibile sfuggire a questi fili invisibili, a queste triangolazioni, a queste ripetizioni?" Anne Ancelin Schutzenberger sostiene che, in un certo senso, siamo meno liberi di quanto crediamo. Pertanto possiamo riconquistare la nostra libertà e svincolarci dalla ripetizione capendo ciò che accade, afferrando questi fili nel loro contesto e nella loro complessità. Questi complessi legami vengono vissuti nell'indicibile, nell'impensabile, nel non detto o in segreto. Tuttavia esiste un modo per trasformare sia questi legami affinché le nostre vite diventino profondamente a misura di ciò che desideriamo, di ciò di cui abbiamo voglia e bisogno per esistere. Se si è governati dal caso o dalla necessità, si può comunque cogliere la propria occasione, cavalcare il proprio destino, capovolgere la sorte sfavorevole ed evitare i tranelli delle ripetizioni transgenerazionali inconsce. Secondo la Schutzenberger, il lavoro della psicoterapia è fare in modo che la vita sia l'espressione del nostro autentico essere. Lo psicoterapeuta, dopo essersi smascherato e compreso lui stesso, è pronto per capire, ascoltare e vedere. Allora, umilmente, avvalendosi di tutto il suo sapere, il terapeuta cerca di essere l'intermediario o il traghettatore che colma la distanza tra colui che cerca se stesso e la sua verità. |
Emma Montorfano
Categorie
Tutti
Archivi
Febbraio 2023
|