A volte mi capita di indicare a Vera qualcosa da guardare in lontananza. Quando mi accorgo che non riesce a vedere , il gesto più spontaneo è quello di prenderla in braccio e di portarla "alla mia altezza". Ma oggi ho provato a fare il contrario: mi sono abbassata io per cercare l'angolazione giusta affinché potesse vedere ciò che stavo indicando. Su ciò che comporta stare all'altezza dei bambini, credo che ognuno di noi l'abbia sperimentato almeno una volta e sappia cosa significa. Io credo che ciò che lo renda così speciale e difficile al tempo stesso, sia che, per quell'attimo, dobbiamo abbandonare le nostre certezze, il nostro orizzonte. Dobbiamo fare a meno dei nostri punti di riferimento ed assumere che ce ne siano di altri altrettanto validi. E questo implica che dobbiamo contemplare la possibilità di non essere dalla parte "giusta" come pensavamo o che, forse, "giusto e sbagliato" non serva nemmeno in questo caso. Prendere il punto di vista dell'altro significa togliere noi dal nostro centro per metterci l'altra persona e provare a vedere le cose come vengono viste da quella prospettiva.
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Ogni giorno, a metà pomeriggio, come un orologio svizzero, forse per la noia dello stare sempre con noi genitori o la voglia di altro, Vera inizia a camminare sulla spiaggia in cerca di persone con cui interagire. Ha tampinato soprattutto femmine: ragazzine, giovani donne, mamme, nonne.
Noi, ovviamente, dietro di lei. E così, dopo Vera che esordisce col suo "ciao" che sembra più un "ciau", dopo frasi di circostanza, si inizia piano piano, quasi in punta di piedi, ad entrare nelle storie di vita delle persone. C'è stata la nonna coi capelli bianchi e gli occhi azzurri come il mare a cui Vera si è messa in braccio e con cui si sono scambiate coccole a vicenda. La mamma di tre figlie femmine a cui Vera ha scroccato delle crocchette di patate per merenda, con cui si è parlato dell'essere mamma. La ragazzina con cui ha giocato con uno spruzzino e quella che ha riempito di sabbia. La famiglia milanese, con cui si è parlato, ahimè, di Covid. La maestra di asilo Anna, che dalla Puglia è salita fino a Trento per lavoro, trovando poi l'amore del montanaro Paolo a cui piace il mare. Poche parole, poche frasi eppure ricchissime di ciò che una persona ha vissuto, di ciò che si porta con sé, anche in spiaggia, oltre al telo e all'ombrellone. E se all'inizio mi costava fatica ( io che in spiaggia cerco quasi la solitudine) a poco a poco è stato divertente trovarsi a pensare "chissà oggi Vera chi sceglierà"! Ieri sera mentre preparavo Vera per la nanna, mi è arrivata la sensazione di non aver vissuto bene la giornata con lei, nonostante avessimo passato insieme gran parte del tempo. Sarà perché abbiamo giocato poco insieme e lei ha dovuto farlo da sola mentre mi occupavo di altro in casa. Mi è proprio sembrato che la giornata fosse passata via veloce, che fosse da tanto che non vedevo il suo visino e che mi fossi persa qualcosa "ma come, siamo già arrivati a sera?" "e dove sono stata?".
Mi ha fatto pensare che spesso siamo presenti fisicamente ma chissà come mai non ci siamo davvero. Può succedere in casa, con i figli, nelle relazioni, nel lavoro, perfino in terapia. Il nostro corpo è lì, ma è come se non ci fossimo totalmente. Perché è difficile e faticoso esserci sempre al 100%. In alcuni casi, anche doloroso. A voi capita mai? Come state quando succede? E che cosa fate dopo? Essere genitori è una cosa seria. Ci vuole tempo, tanto tempo, impegno, pazienza, curiosità, fiducia e molto altro. Spesso in terapia vedo le conseguenze sui figli di genitori troppo lontani, assenti, manchevoli, o al contrario troppo vicini, presenti, ingombranti. So bene che in una famiglia si creano delle dinamiche che possono essere attanaglianti o invece accrescitive. È una cosa seria appunto. Ma ciò non toglie che essere genitori sia anche una cosa leggera, citando Calvino. "Leggerezza non è superficialità". È avere un pensiero, una consapevolezza del peso che c'è dietro e permettersi di sorridere. Non è vaghezza o abbandono al caso. È scendere nel buio fino al fondo e poi risalire in volo. È giocare con mia figlia e sapere che le nostre risate non sono solo una gioia evanescente ma sono anche e soprattutto il "peso" della relazione tra me e lei e tutto ciò che significa per noi.
Tre bambine al parco: tre colori diversi, tre lingue madri differenti. Mi piacerebbe sapere cosa si stanno dicendo, di sicuro stanno comunicando. Senza avere ancora le competenze proprie del linguaggio verbale adulto (e senza che la lingua madre sia la stessa), usano gesti e suoni per capire e farsi capire. E per fare ciò occorre avere da un lato la curiosità, dall'altro la pazienza dell'ascolto. Che sono spesso gli atteggiamenti che perdiamo da adulti, quando la padronanza delle parole ci fa credere che bastino quelle per inviare messaggi efficaci. Capita allora, soprattutto durante i litigi, che ci affidiamo solo al verbale senza soffermarci ad ascoltare davvero noi stessi e l'altro, i nostri bisogni così come i suoi. Cercherò di ricordarmi di questa immagine la prossima volta che mi capiterà di litigare con qualcuno: un invito all'ascolto attento ed attivo. Adoro i Peanuts per la capacità che hanno di cogliere e descrivere la complessità della vita in modo semplice ed immediato. Su questa striscia potremmo dire di tutto e di più. Io l'ho scelta per il tema dei "litigi", per sottolineare (come nell'esercizio) che un passo fondamentale quando si comunica con un'altra persona è la curiosità verso il suo punto di vista. Se questa viene a mancare, manca l'attenzione necessaria per ascoltare e la voglia di comprendere la prospettiva dell'altro. Che non significa giustificare o cambiare opinione. Significa "semplicemente" conoscerla meglio. E sicuramente, con una tale conoscenza, anche un litigio può diventare interessante e costruttivo.
Immaginiamo che la terra stia morendo. L'unica possibilità di salvezza è una navicella spaziale con sette posti, che sta per partire per un altro pianeta. Intorno alla navicella vi sono undici persone che aspirano a partire, Voi vi trovate nella posizione di dover scegliere le sette che partiranno e costruiranno il primo nucleo di una nuova civiltà. Di loro sappiamo pochissimo, quasi niente, e tuttavia su queste basi dovete scegliere anche rapidamente, altrimenti nessuno rimarrà in vita. Avete fatto la vostra scelta? Chi salvereste? Se siete pronti, continuiamo con il gioco: Quando la navicella con i prescelti sta già viaggiando verso il nuovo mondo ci arriva un secondo documento, con altre informazioni più dettagliate su ciascuno dei candidati (prescelti e no). Leggiamole: Siete ancora soddisfatti della vostra scelta? Su cosa ci fa riflettere questo gioco?
Molto spesso, se le informazioni a nostra disposizione sono poche, produciamo automaticamente delle "immagini" generali, che non tengono conto dei quasi infiniti casi particolari ma che ci permettono comunque di agire in modo rapido e il più efficace possibile. Queste immagini generali sono considerati "stereotipi": ci affidiamo ad essi per interpretare la realtà quando non abbiamo abbastanza informazioni dettagliate e specifiche o quando non abbiamo il tempo per decifrare e comprendere tutta la complessità. Essi, sebbene funzionali in alcuni casi, non sono mai delle rappresentazioni accurate della realtà. Ritornando al gioco: per ogni parola è come se ci fossimo chiesti "qual'è il suo significato più convenzionale?". Così, quando abbiamo letto per esempio la parola atleta abbiamo avuto una certa immagine (il più delle volte un ragazzo giovane e forte); ma quel significato non è nella parola, siamo noi che abbiamo associato quel significato nell'atto di interpretarla alla luce della situazione in cui ci trovavamo. Husserl afferma infatti che: “L'atto del conoscere implica un'operazione di riempimento ovvero un'attribuzione di senso all'oggetto della percezione”. E' un po' come se riempissimo quella parola di un significato, sulla base delle nostre conoscenza, della nostra cultura, della nostra esperienza. La situazione in cui ci troviamo e il problema in cui siamo impegnati rendono più plausibile un'interpretazione piuttosto che un' altra. Di fronte a parole isolate dobbiamo ricorrere ad associazioni meccaniche: o la prima immagine che ci viene in mente o quelle che valgono comunemente in una certa cultura. Ma gli stereotipi non sono qualcosa di “oggettivo”, sono delle costruzioni al tempo stesso sociali ed arbitrarie. Agire sulla base di stereotipi però rischia di farci cadere in errore., come forse è successo con alcune scelte del gioco. E' importante imparare a convivere con il disagio dell'incertezza, sopportare l'esplorazione prolungata e paziente, rendersi disponibili all'esplorazione dei mondi possibili. Si tratta di diventare più flessibili e aperti, senza fretta di arrivare alle conclusioni, disposti ad accogliere particolari che giudicheremmo più marginali e irrilevanti, a vedere le stesse cose anche da altri punti di vista. Dobbiamo abituarci a pensare che i casi particolari sono degli strumenti che ci aiutano ad uscire dalle cornici che diamo per scontate e alle quali ci affidiamo e possono essere utilizzati come delle occasioni fondamentali per l'ascolto attivo. Gli altri sono gli infiniti mondi possibili che sempre abbiamo di fronte. Da dentro le nostre cornici percepiamo e valutiamo il mondo esterno, Spesso sembra che gli altri si assomiglino tutti terribilmente, a volte capita di raggrupparli in categorie predefinite, e la nostra relazione con loro è spesso limitata e limitante per entrambe le parti. Quando invece esploriamo la complessità sempre maggiore in cui viviamo e sperimentiamo altri percorsi, possiamo trovare una via di uscita da questi soffocanti e a volte infernali circoli viziosi. Per riuscirci, occorre partire dall'ascolto. Ecco le sette regole dell'arte di ascoltare, secondo Marianella Sclavi 1. Non avere fretta di arrivare alle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca 2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista 3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva 4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali, se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi ma su come guardi 5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili 6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione, affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti. 7. Per divenire esperto nell'arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l'umorismo viene da sé Marianella Sclavi, L’arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, 2003, Mondadori |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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