Prendermi cura delle storie delle persone è il mio lavoro. Negli anni ho sfogliato tanti libri che parlavano di cura e ancora lo faccio, sia per formazione professionale sia perché è sempre importante avere sguardi nuovi con cui guardare ciò che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Potevo allora non leggere questo "Manifesto della cura", scritto dal collettivo The Care Collettive? "Di cosa parliamo quando parliamo di cura? Cosa vuol dire avere cura degli altri e chi sono questi altri? Come fare in modo che prendersi cura degli altri non sia solo un' attitudine individuale, da filantropi, ma un imperativo etico e una responsabilità politica?" Mica male come prime righe. Poche pagine ma densissime di contenuti, in cui più piani, da quello personale a quello politico, si intrecciano ... perché così è la realtà. Siamo dentro le relazioni, viviamo nelle relazioni, a tutti i livelli. "La consapevolezza della nostra dipendenza e interdipendenza dagli altri è il primo passo per rimettere la cura al centro dell'agenda politica e sociale" "Prendersi cura non può essere un processo individuale ma collettivo". Ed è proprio la presa di consapevolezza di quanto il sistema in cui siamo inseriti e le relazioni ci formino, di quanto ci costituiamo attraverso la relazione, che deve farci adottare la prospettiva di una cura che sia responsabilità collettiva. Il discorso su che cos'è "cura" viene amplificato: "Quando parliamo di cura non ci riferiamo soltanto alla cura in senso pratico, ovvero il lavoro svolto in prima persona da chi si occupa dei bisogni fisici ed emotivi altrui, per quanto questo resti un aspetto cruciale. La cura è anche una capacità sociale, un'attività che alimenta tutto ciò che è necessario al benessere e al nutrimento della vita". Ritorna una concezione di benessere che sia inclusivo di mente e corpo, di salute mentale, salute fisica e salute relazionale. "Cura universale significa che la cura in tutte le sue manifestazioni è la nostra priorità, non solo in ambito domestico, ma in ogni sfera, nei nostri legami più stretti, nelle nostre comunità fino ad arrivare agli stati e all'intero pianeta".
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“La vita non è come dovrebbe essere. È quello che è. È il modo in cui l’affronti che fa la differenza.”
Virginia Satir Ho vissuto a Garoua, Camerun, per due anni e mezzo. Era un mio grande, enorme, desiderio, quello di andare alla scoperta di un luogo così lontano, con una cultura, una lingua e persone diverse. Prima della partenza, era così tanta l'euforia e la felicità che non pensavo minimamente ai possibili "effetti collaterali" o meglio, mi sembravano problemi irrisori, niente che non potesse essere risolto. E così mi sono avventurata nel "nuovo"!
È stato poi nel vivere quel luogo, quella cultura, quella lingua, quelle persone, che sono arrivati i primi scontri, i primi cedimenti, la nostalgia di casa e delle cose conosciute, la sensazione di non farcela, a tratti ho sentito anche la voglia di lasciare lì tutto e tornare a casa. Mi ricordo esattamente un sabato mattina, con la mia borsa e tutto l'occorrente per il laboratorio espressivo in carcere (fogli, colori, pennelli, matite e pastelli per quaranta ragazzi!), sotto il sole cocente, già sudata ed in cerca di un moto-taxi che non riuscivo a trovare, affonfando nella sabbia ad ogni passo, ho maledetto di aver preso quella decisione di partire. Mi sono fermata, un attimo di riposo e mi sono anche ricordata del perché avessi tanto desiderato essere lì in quel momento. Ed ho ripreso a camminare. Nelle esperienze di vita c'è sempre una parte di desiderio, di voglia di imparare cose nuove, di mettersi alla prova, così come la paura, le preoccupazioni, i cedimenti e la voglia di tornare indietro. Entrambe le parti sono legittime. Sta poi a noi scegliere qual è la direzione più adatta a noi. Questa è stata la mia esperienza personale, se avete voglia di leggere il mio punto di vista come mamma che osserva una bimba che sta imparando...vi lascio questo post ! Anni fa, durante la stagione estiva, mi piaceva partecipare ai mercatini all'aperto dove esponevo le bigiotteria che creavo. Mi ricordo di una signora sulla settantina, bancarella vicino alla mia: parlando del più e del meno, mi disse che aveva perso suo marito e che iniziare a creare orecchini l'aveva salvata dal morire anche lei. Io stavo scrivendo la mia tesi su trauma e resilienza e quella è stata per me una confidenza preziosissima.
La morte di una persona che si ama lascia un vuoto enorme. E in quel vuoto molto spesso ci si cade dentro. Si perde il senso del tempo, il futuro sembra non esistere più e il presente non viene vissuto perché immersi nel passato, nei ricordi felici. Questa signora un giorno, per caso, si era messa a giocherellare con pietre e fil di ferro: con le mani, ha ripreso contatto con il presente, con il qui ed ora, con i suoi sensi. Le mani l'hanno fatta risalire dal vuoto, l'hanno messa in connessione con la realtà davanti a lei. E dal buio, dal nulla, ha iniziato a dare forma a qualcosa di reale e tangibile. Qualcosa di concretamente "vivo" davanti a lei. E piano piano ha ripreso anche lei a vivere. A Milano ci sono sempre quei due, tre gradi in più, rispetto ai paesi della provincia, che fanno sì che i fiori sboccino in anticipo di qualche settimana.
È come se alcuni fiori si "dessero del tempo", perché sentono che non è ancora arrivato il momento giusto per schiudersi. Non è di certo un tempo passivo: il bocciolo non si immobilizza, continua il suo processo al suo ritmo, sempre in contatto con le condizioni esterne. Anche noi diamoci del tempo se ne abbiamo bisogno. Diamo del tempo a noi stessi, all'altro, alla coppia, ai nostri figli, quando sentiamo che non si è ancora pronti per un cambiamento. Ma che questo tempo non sia passivo, in attesa di una magia dall'alto ( o dall'altro). Che sia un tempo attivo: per aumentare la nostra consapevolezza, per starci vicini, per conoscere meglio le nostre emozioni, per provare a fare delle cose in modo diverso, gradualmente, per trovare le nostre risorse, le nostre reti di supporto. Quando vi date tempo, come lo usate? Nasce un figlio, una figlia e nascono anche due genitori.
Nei mesi precedenti la nascita, si immagina tanto e forse tutto! Come sarà, come saremo noi, cosa farà, cosa faremo. E intorno, tanta magia, buoni propositi, solo "cose belle". Dopo la nascita ci si scontra con le prime difficoltà (magari qualcosa che non avevamo contemplato) e ritrovare quelle immagini così positive che avevano accompagnato la gravidanza può essere complicato. Vogliamo rassicurare le neo mamme e i neo papà che va bene così. Che fa tutto parte del gioco! Che si impara strada facendo e che non c'è un giusto o uno sbagliato. Il vero metro di misura restiamo sempre noi, il nostro benessere come individui e come famiglia, e... i nostri sorrisi! Insieme a Anna Gigliarano e Valentina Rocchio vogliamo RICORDATI CHE: Cosa può racchiudere un "piatto di lasagne speciali"?
In questo libro "Morti ma senza esagerare" di Fabio Bartolomei, la protagonista perde i genitori in un incidente stradale. Arriva la "mazzata", ovvero realizzare che non ci sono più, sentire il vuoto, ripensare a tutto ciò che si sarebbe potuto fare o dire. Così come imparare la ricetta delle lasagne speciali della mamma. Che prima sembrava una piccola cosa inutile mentre ora diventa il simbolo dei rimorsi e dell'assenza. Che non sono solo le lasagne in sé. Qui il cibo racchiude la relazione con la mamma, le emozioni, il tempo passato insieme, i ti voglio bene non detti e i difetti che fanno della persona quella che è, la paura di non ricordare, di perdere il ricordo della propria mamma, la paura del vuoto che lascia la perdita. Alla fine la protagonista scopre che il vuoto in realtà non è così vuoto. Che le persone che non ci sono più continuano a vivere se le ricordiamo, e che preparare le lasagne diventa un modo nuovo per continuare a sentire vicino la propria mamma. Una delle tante cose che si fa in terapia è parlare, osservare, dare senso, sentire le proprie emozioni. E non riguarda solo chi in terapia ci va, ma anche (e forse soprattutto) lo psicoterapeuta.
Quando lavoro in terapia non divento una fredda macchina, per fortuna! Sono sempre in contatto con ciò che sto provando perché ciò che sento mi è di grande aiuto per fare ipotesi sulla relazione terapeutica e sul problema che la persona mi porta. Come succede a tutti anche nella vita di tutti i giorni, a volte stare e capire le proprie emozioni è facile, altre volte più complesso. Ieri ad esempio, mi è stato davvero difficile convivere che una emozione provata in terapia e che ha risuonato in me tutto il giorno. Ho faticato a giocare con mia figlia, ad essere davvero presente con lei, perché testa e cuore erano da un'altra parte. Ho dovuto fermarmi, guardarla con più attenzione, cercare di capire qual era il senso all'interno di quella specifica relazione terapeutica, per il paziente e per me, e riflettere su cosa mi stava comunicando. Un bel lavorio che non è stato fine a se stesso ma di grande aiuto per continuare la terapia nel prossimo incontro. Non lo avessi fatto, avessi ributtato indietro ciò che sentivo, non avrei potuto essere "terapeutica". Perché oggi scrivo questo? Perché stare nelle proprie emozioni, soprattutto quelle scomode, non è cosa da poco. Anche per gli "addetti ai lavori" che conoscono come si fa, ci può voler tempo e impegno. Lo sappiamo bene quando vi chiediamo e vi accompagniamo nel farlo. Così come sappiamo che è proprio questo processo a darci la possibilità di svoltare, di procedere e di stare meglio. "La cucina è affettività, é trasmissione, la cucina è condivisione, è trasformazione, la cucina è scelta, la cucina è resilienza, la cucina è creatività la cucina è narrazione, la cucina è maestra di vita"
Barbara Volpi Ho iniziato il mio viaggio in cucina verso i 18 anni, cominciando a preparare dolci, in particolare muffin e crostate, incuriosita dalle ricette dei programmi di cucina. Adesso è diventato un rituale che io prepari un dolce in occasione dei compleanni di famiglia. Il fare in cucina ... si parte dalla concretezza del presente, del qui ed ora, da ciò che si ha davanti agli occhi e tra le mani e alla fine, proprio dalle mani, si arriva a dare forma e vita a ciò che si aveva solo nella mente. E non è questo un modo per "curare affettivamente" se stessi? I genitori sono sempre ben felici quando i figli hanno una vita sociale positiva. Fin da piccoli ci preoccupiamo che giochino con gli altri, che interagiscano, che socializzino. E, per forza di cose, ci capitano spesso situazioni in cui scoppia un litigio, i bambini si spingono, si rubano i giochi, alzano le mani. A volte non sappiamo bene come intervenire, se andare in soccorso o lasciare che se la sbrighino da soli.
Prima di porci questa domanda sul "cosa fare", proviamo a soffermarci sullo sviluppo del bambino. A due anni il bambino agisce per SANO "egoismo":tutto è suo! Sta scoprendo il mondo e non ammette intralci. Ha appena imparato che non è più un tutt'uno con la mamma, ma che è un esserino dotato di libertà di azione. I suoi NO, le sue prese di posizioni che a noi sembrano capricci, i suoi MIO, sono tutti modi per sperimentare questa grande scoperta: sono IO! Ovviamente ciò si riscontra anche e soprattutto nell'interazione con i pari. I giochi diventano suoi, vengono strappati di mano, a volte l'altro viene picchiato. Non c'è nulla di strano o anormale. E' solo dai 4 anni infatti che il bambino inizia a comprendere i meccanismi della relazione, che con gli altri ci si può anche divertire! Le interazioni, proprio tramite il gioco diventano sempre più complesse e profonde. Più sta con gli altri più impara a ...stare con gli altri! Ma allora che si può fare? Possiamo iniziare a fargli notare che esiste un altro diverso da sè, provare a spiegare che lo strappare, lo strattonare, lo spingere fanno male all'altro bambino e lo rendono triste. Già da piccoli possiamo insegnargli ad usare PAROLE IMPORTANTI COME GRAZIE, SCUSA, PER PIACERE...(ricordiamoci sempre che noi siamo la sua prima fonte di apprendimento, quindi usiamole prima noi in quante più occasioni possibili, anche con lui!) La punizione per il suo comportamento "socialmente sbagliato" non ha grande utilità, perché il bambino sta imparando e non ha ancora pienamente sviluppato tutte le capacità che gli permettono di comprendere appieno. Quando mettete i bambini piccoli in castigo e loro "non ascoltano, provocano", beh, è perché non hanno compreso. Ciò non vuole dire che non ci debbano essere regole, anzi! Poche e fondamentali. Verso i sei anni, i bambini sviluppano ancora di più la consapevolezza di chi sono e del fatto che possono entrare in relazione con gli altri. Aumentano sentimenti di imbarazzo, vergogna, colpa e timore, ma anche di rabbia, frustrazione e impotenza. A questa età i bambini però iniziano a comprendere ciò che è bene e ciò che è male. Quindi diventa molto importante aiutarli nel prendere sempre più consapevolezza delle loro emozioni (che bel gioco!), dei loro desideri (lo vorrei per giocare) e di come raggiungerli senza far male all'altro (posso chiedere di giocare insieme o di prestarmelo per un po'). Continuare ad insegnare le regole dello star bene insieme: come si fa per chiedere un gioco, come perdonare, chiedere scusa, come chiedere che venga ridato un gioco preso senza permesso, fare a turno etc. Quando vediamo dei comportamenti aggressivi, è sempre meglio riflettere insieme, capire cosa è successo, come si sta, parlare, aiutare a chiedere scusa piuttosto che dare una punizione, col rischio che non ne vengano compresi i motivi. Dietro uno spintone o un calcio, c'è la rabbia e dietro la rabbia...un bisogno a cui non sanno ancora dare voce. Supportiamoli sempre, ricordiamoci che stanno imparando! Se insegniamo come gestire un conflitto in modo positivo, possiamo successivamente provare a lasciare che siano loro a cavarsela da sé e vedere come va. Non dimentichiamoci che loro sanno essere molto più creativi di noi nel risolvere situazioni problematiche. Verso i 12 anni, si intensifica il bisogno di definire i propri confini personali, questa volta per trovare una propria identità, che sia staccata da quella dei genitori. Il "gruppo" diventa un fattore chiave nella vita di un dodicenne. Si gioca, si sta insieme, si cresce! Lo sviluppo cognitivo è tale da permettere al ragazzo di comprendere quali sono i valori sociali e prendersi la responsabilità degli effetti delle sue azioni. L'intervento dell'adulto deve essere mirato ad aiutare a comprendere quali bisogni sono stati calpestati, che emozioni sono in gioco. Aiutare nel trovare modalità di interazione che siano rispettose per tutti quanti. Far riconoscere che la propria libertà (legittima!) ha dei limiti e che si può causare intenzionalmente un danno. provare a far mettere nei panni dell'altro. Parlare, confrontarsi, discutere! La punizione (calibrata a ciò che è stato fatto e all'età) può essere applicata quando la regola, prima condivisa con l'adulto, viene poi infranta intenzionalmente. Occorre poi essere ben consapevoli che dietro l'aggressività (ripetuta e costante) di un ragazzino può celarsi però un vero malessere e, come adulti, abbiamo il dovere di prendercene cura. |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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