https://jacobinitalia.it/le-eccezioni-psicotiche/?fbclid=IwAR0yej_s_mhSBdljip_zn2iqrvf6NxC61OxEMZTlJ1DElJ-AbiwESyk2YlU Invito a leggere questo lungo ma interessante articolo scritto da Dario Firenze, di cui condivido alcuni stralci.
Le prime settimane di emergenza per il Coronavirus in Italia verranno ricordate per moltissime cose. Voglio soffermarmi in particolare su un elemento che si è diffuso (viralmente) nel dibattito pubblico, sulla stampa, sui social network e nelle chiacchiere da bar (quando sono aperti): la psicosi. Il termine psicosi è stato largamente abusato in questi giorni. L’evento principale che ne ha sdoganato l’uso è stato l’assalto ai supermercati in diverse zone d’Italia, una corsa all’acquisto oltre che di scorte alimentari anche di mascherine e prodotti igienizzanti. Scene che nella stampa e nei social network hanno creato un flusso di commenti oscillanti tra la preoccupazione e l’ironia a colpi di meme. Il tutto tenuto insieme da una terminologia psicopatologica, categorizzando questi fenomeni con il concetto di «psicosi collettiva». Tale concetto viene utilizzato nel senso comune in modo dispregiativo, come parola-contenitore per tutti i comportamenti collettivi che eccedono le risposte ritenute «normali» o «sane». Questa «diagnosi» nel contesto di contagio si è unita alla valutazione di inciviltà e ignoranza. Il coronavirus è una «psicosi collettiva»? Ma perché un acquisto imponente di prodotti frutto di una situazione di timore per un virus che ad oggi non ha vaccino o terapie specifiche e ha fatto nel nostro paese decine di morti e centinaia di infetti, produce una tale valutazione? Dietro alla derisione e all’esigenza di classificazione si intravede una pulsione elitaria di razionalizzazione. Razionalizzazione che, in questo caso specifico, mostra due problemi principali. Da un lato si analizza il modo in cui i meccanismi di mercato orientano anche le situazioni di emergenza e paura: di fronte al contagio le mascherine e gli igienizzanti per le mani sono divenuti merci introvabili, con prezzi stellari, ma viene sottolineata solo la «psicosi collettiva» dell’acquisto di massa ai supermercati. Esiste un’«economia del panico» non perché qualcuno si «inventa» delle epidemie o delle catastrofi, ma perché gli avvenimenti spesso poco prevedibili determinano delle dinamiche intrinseche ai meccanismi di mercato. Più che occasione di scherno sarebbero momenti in cui analizzare come il feticismo delle merci abbia un effetto sulle nostre vite psichiche oltre che sulle nostre tasche. Dall’altro la risposta razionalizzante ha l’obiettivo tenere a distanza le emozioni, le sofferenze, le angosce di cui si fa fatica a comprendere i motivi. La razionalizzazione del resto è stata studiata dalle teorie psicoanalitiche nell’elaborazione dei meccanismi di difesa: introdotto a inizio Novecento da Ernest Jones, allievo di Freud, il termine definisce tutte quelle spiegazioni razionali e rassicuranti che le persone si danno di fronte a fenomeni e sentimenti vissuti con eccessiva angoscia e difficilmente accettabili. La razionalità dunque non è un approccio oggettivo alla realtà, ma spesso un meccanismo di difesa rispetto all’angoscia del reale. La paura di un virus sconosciuto (fatto alquanto comprensibile, a prescindere dalla valutazione di pericolosità del virus in sé) diventa causa di disprezzo e derisione, roba di cui vergognarsi e da cui prendere le distanze. E la postura razionalizzante ha quasi un’ossessione di «cura» nel senso praticato dalla psichiatria dominante: l’assalto ai supermercati è un sintomo, il sintomo esprime un disagio che dobbiamo eliminare per tornare a essere sani, «normali». Un approccio che rivela la paura della sofferenza psichica, la propria prima di tutto. E fa emergere anche l’illusione che si possa «riprendere controllo» e potere sulla realtà liberandosi dalle emozioni e guidati solo dalla razionalità. Giorno dopo giorno assistiamo a dinamiche ambivalenti degli stessi rappresentanti istituzionali, che spingono per razionalizzare il fenomeno epidemico ma poi agiscono in modo emergenziale di fronte alla crescita del contagio e della paura. La prima cosa da fare dovrebbe essere abbandonare il paradigma razionalizzante che deride e stigmatizza le esperienze di sofferenza psichica e le paure che viviamo intorno a noi, cogliendo le possibilità inedite aperte dal dover «fermare la quotidianità» per sperimentare l’ascolto di noi stessi e di chi è intorno a noi, dal nostro quartiere al posto di lavoro, dal bar fino proprio al supermercato. Basaglia ha affrontato a più riprese anche il concetto di ipocondria riflettendo sul rapporto tra angoscia, corpo e depersonalizzazione (il distacco dall’esperienza di sé e della propria esistenza), in cui l’ipocondria si struttura sul «vivere il ‘proprio corpo’ soltanto come oggetto»: il corpo ‘come oggetto’ invade la coscienza ed è ‘sentito con dolore’. Esso, quindi, non è più ‘mio’, ma diventa un ‘oggetto’ del mondo che si esprime solo attraverso gli incontrollati apparati neurosomatici: l’ansia che si libera da tale insopportabile situazione costituisce, dunque, l’essenza dell’ipocondria che esprime, come direbbe Freud, l’angoscia della morte [Scritti. 1953-1980 Il Saggiatore, 2017]. La riflessione è interessante perché permette, nella situazione di paura dell’epidemia, di ragionare sulla dimensione diffusa della perdita di rapporto con il proprio corpo. E il termine ipocondria, a differenza di quello stigmatizzante di «psicosi collettiva», serve non per etichettare un comportamento ma per imparare qualcosa di noi e della società in cui viviamo. Un altro psichiatra «eretico», Frantz Fanon, propone il concetto di sociogenesi della sofferenza psichica, analizzando come i nostri sintomi trovino le proprie radici e modi di esprimersi nelle strutture sociali in cui nasciamo, cresciamo e a cui partecipiamo quotidianamente. Per Fanon – che in Pelle nera, maschere bianche utilizza questo concetto per analizzare l’esperienza vissuta dalle persone nere nella struttura sociale razzista e le conseguenze psichiche che ne derivano – la sofferenza mentale non può essere ridotta a una dimensione organica o individuale ma dev’essere compresa a partire dal contesto storico, politico e sociale in cui l’individuo è inserito ed esprime una specifica sintomatologia. Sintomatologia non neutra ma segnata dai rapporti di dominio vissuti dall’individuo. Possiamo dunque dire che esistono due tipi di cura che la lingua inglese ci aiuta a distinguere: la cura razionalizzante (to cure), che cancella l’espressione della sofferenza e cerca di «normalizzarla», e il prendersi cura (to care) della nostra e altrui esperienza vissuta, la cura reciproca. Oggi abbiamo l’occasione di cambiare prospettiva per costruire relazioni capaci di sostenersi a vicenda, di raccontarsi e sentirsi creduti, di riflettere e condividere le strategie comuni, le cose che desideriamo e quelle di cui abbiamo bisogno per stare bene. Si tratta di riuscire a dare spazio alla vita psichica come terreno pienamente politico, e viceversa di praticare la politica come dimensione resa viva dalle nostre esperienze vissute, emotive, psicologiche. Un prendersi cura che si riappropri del potere sulle nostre vite: il potere di averne cura collettivamente. E se fosse questa una delle scintille per la creazione del vero «stato di eccezione»? Considerato un muscolo d’eccezione misteriosamente animato, motore primo della vita, il cuore è l'organo che ha sempre ispirato artisti, poeti, filosofi e scrittori. Esistono a riguardo immagini, proverbi e metafore: "non avere cuore", "spaccare il cuore", "corteggiare", "metterci il cuore", "ricordare", "avere coraggio", "col cuore in mano" [qui ne puoi trovare altri].
Il cuore è al centro di ogni aspetto della nostra esistenza. Quasi tutte le culture tradizionali attribuiscono al cuore il significato di centro simbolico dell’affettività e dell'anima. Per tradizione, assume anche il significato di cardine della spiritualità e in questo senso è considerato un organo sacro. In India è la dimora di Brama; per l’Islam il trono di Dio. Presso i sufi, i saggi islamici, la visione spirituale viene paragonata “all’occhio del cuore”. Gli alchimisti, d’altra parte, ritenevano che il crogiuolo interiore dell’uomo, ossia il luogo che fornisce il calore necessario al compimento della grande Opera, fosse nel centro del cuore. Inoltre, quando in Egitto si imbalsamavano i morti, l’unico viscere che restava intatto nel corpo della mummia era il cuore, che come centro supremo dell’uomo doveva rispondere delle azioni del defunto al cospetto del giudizio divino. Questa presa sull'immaginario gli ha guadagnato un assoluto rispetto anche in ambito medico, rendendolo quasi un tabù: fino alla fine del 19esimo secolo infatti nessuno aveva osato avvicinarvisi con un bisturi. C'erano certo dei limiti tecnici, ma il divieto culturale era ancora molto forte. La svolta è avvenuta quando si è iniziato a considerarlo una macchina. Il cambio di punto di vista ha permesso lo sviluppo di tecnologie salvavita. Ad esempio, William Harvey ha indagato e svelato la natura della circolazione sanguigna; C. Walton Lillehei, con la macchina cuore-polmoni ha dato speranza di vita a milioni di pazienti; Werner Forssmann per primo sperimentò su se stesso la procedura per raggiungere il cuore con un catetere – aprendo così la strada a una chirurgia cardiaca meno invasiva; mentre George Mines ha scoperto i meccanismi elettrici del muscolo cardiaco. Nonostante i progressi tecnologici e una visione meccanicistica, l'imprevedibilità del cuore continua a fare paura. Da certe patologie, risulta che le emozioni giocano un ruolo fondamentale nella salute del cuore. La più spettacolare è la cardiomiopatia di Tako-tsubo o patologia del cuore infranto. Quando il cuore viene indebolito da uno stress fisico od emotivo, la persona può sviluppare dolori al petto, aritmie e il cuore stesso cambia forma temporanemanete nell'ecografia. Diventa a palloncino, come il vaso per la pesca del polpo usato in Giappone, da cui il nome. In nessun'altra condizione il cuore biologico e quello metaforico sono cosi strettamente intrecciati. Si è inoltre scoperto che il cuore non è solo fondamentale per la sopravvivenza, ma anche per il modo in cui le persone si relazionano l'una con l'altra. In particolare, la variazione dell'intervallo dei battiti del cuore gioca un ruolo chiave nei comportamenti sociali che vanno dal prendere decisioni, regolare le proprie emozioni e far fronte allo stress. Se il cuore fosse solo una pompa basterebbe manipolarlo con la farmacologia ma non è così. E' un organo profondamente innervato che, come molti altri, risponde ai nostri stati emotivi ed ha interazioni complesse con il modo in cui ci relazioniamo agli altri. E molto probabilmente, i progressi futuri in questo campo dipenderanno sempre più dai nostri stili di vita, e sempre meno dai dispositivi che saremo in grado di inventare. Blake osservò che “una lacrima è una cosa intellettuale”. Corpo e mente infatti non sono entità separate ma un tutt’uno integrato, sin dalla nascita. Il corpo esiste nel tono di voce, nei movimenti, nelle posizioni, perfino nei silenzi. Con il corpo si parla, anche se a volte in modo implicito o inconsapevole. Possiamo dire che il corpo è sempre presente nelle nostre relazioni e nei processi comunicativi. Gaber, descrivendo i sintomi della schizofrenia nella canzone "L'elastico", canta così, a proposito di mente e corpo: Mi ricordo che correvo Le recenti scoperte delle neuroscienze (Damasio, Rizzolatti) rendono sempre più evidente che i meccanismi “mentali” non controllano tutto il nostro “funzionamento”, ma che, al contrario, esiste una connessione tra tutti gli elementi psico-corporei, quindi cognitivi, emotivi, motori, sensoriali, endocrini. Esiste addirittura una “memoria corporea” costituita da tracce permanenti delle esperienze passate nelle posture ripetitive e abituali, nelle alterazioni permanenti delle soglie percettive, nelle modificazioni croniche del tono muscolare di base, nei movimenti scolpiti e irrigiditi nel tempo, nell’alterazione della respirazione. Alcune ricerche (Weiss 1993) hanno messo in evidenza che carenze nel rapporto con la madre hanno effetti neuroendocrini significativi che si manifestano, anche a distanza nel tempo, anche quando si è adulti, nella nostra capacità di reagire di fronte ad eventi stressanti. Altri studi (Siegel 1999) sostengono che i circuiti cerebrali si sviluppano con modalità che dipendono dal tatto: le esperienze senso-motorie positive possono consolidare connessioni neuronali esistenti, indurre nuove sinapsi, evitare che sinapsi e neuroni non utilizzati vengano eliminati e “potati”; possono influenzare persino la velocità di conduzione dei segnali elettrici. A volte però sperimentiamo una mancata integrazione e comunicazione tra psiche e corpo che può tramutarsi in disagio e difficoltà. Gaber le canta così: Dio, che senso di paura Risulta quindi evidente che non è più possibile pensare a un intervento terapeutico sulla persona che non prenda in considerazione i due livelli, quello più prettamente psicologico e quello corporeo/fisico. Intervenire direttamente sul corpo non è né facile né semplice ma è qualcosa di articolato ed estremamente delicato. Si tratta di modificare concretamente il modo di muovere il corpo, di “stare”, di posizionarsi, di comunicare ed esprimere vissuti ed emozioni. E’ attraverso questi nuovi concetti che si può guardare alla persona e alla relazione di cura, con sempre maggiore consapevolezza, nella sua totalità e complessità. Che impatto hanno le relazioni sociali sul nostro benessere fisico? spunti tratti dall'articolo Katerina Johnson, ricercatrice dell'Università di Oxford, mentre studiava il ruolo dell'endorfina nel facilitare i legami sociali, ha scoperto una correlazione tra tolleranza al dolore e numero di amicizie.
Sembrerebbe infatti che le persone che si sono costruite una larga cerchia di veri amici hanno anche una soglia più alta di sopportazione del dolore. Tollerano meglio gli stimoli dolorosi grazie all'endorfina, un oppioide naturale con affetto analgesico, prodotto dall'organismo e coinvolto nel circuito del benessere psico-fisico. Secondo alcune teorie le interazioni sociali generano emozioni positive quando l'endorfina si lega ai recettori nel cervello. Quello che Johnson voleva dimostrare era che l'endorfina si fosse evoluta non solo come anestetico naturale dell'organismo, ma anche per aumentare il piacere generato dalle interazioni sociali, essenziali alla sopravvivenza umana. La ricerca: I ricercatori hanno chiesto a 101 volontari tra i 18 e i 34 anni di rimanere con la schiena appoggiata al muro e le gambe piegate ad angolo retto rispetto al tronco più a lungo che riuscissero (un esercizio piuttosto doloroso). I soggetti hanno anche dovuto rispondere ad alcune domande sulla propria rete di amici, e sulla frequenza dei contatti con essi. A parità di età e allenamento, le persone con più amici - in particolare, con più amici che sentivano con cadenza mensile - hanno resistito al dolore più a lungo. In media, ogni aumento di 7-12 amici rispetto alla cerchia primaria di relazioni (quelle familiari) fa aumentare la resistenza al dolore da 1 a 4 minuti. Al momento non è chiaro se l'abbondanza di legami sociali stimoli la produzione di endorfina, e quindi la resistenza al dolore, o se al contrario coloro che hanno un sistema endorfinico più attivo (forse per fattori genetici) traggano maggiore piacere dalle relazioni amicali, e quindi hanno più amici. Non si capisce, in pratica, quale sia la cause e quale l'effetto. La ricerca potrà avere ricadute importanti negli studi sui disturbi dell'umore <<Recenti studi suggeriscono che parte del sistema endorfinico possa essere danneggiato in disagi psicologici come la depressione - spiega Johnson - questo potrebbe spiegare perché spesso le persone depresse non sembrano provare piacere, e si isolano dai rapporti sociali>>. Io aggiungo che, più in generale, la ricerca mette in luce come benessere "fisico" e "mentale" siano strettamente interconnessi, indipendentemente da quale sia la causa e quale l'effetto. Nella relazione di cura di una persona, i due aspetti non possono essere presi e considerati singolarmente, ma occorre metterli in comunicazione tra loro in un'ottica sistemica.
A volte, le situazioni che il mondo ci presenta, ci preoccupano, ci inquietano, non ci fanno dormire la notte... in una parola: ci procurano ansia.
L'ansia è una complessa combinazione di emozioni e sensazioni fisiche, che possono variare da persona a persona. Nella giusta dose, è utile e funzionale per affrontare le situazioni al massimo delle nostre risorse. Talvolta, invece, diventa incontenibile, ingestibile e paralizzante. Qualcosa che, come disegna e descrive questa illustratrice, "poggia sullo stomaco e lo divora", che non va via. Per chi vive in un costante stato di tensione, l'ansia mescola in modo confuso pensieri, desideri, bisogni e aspettative. Assumere la consapevolezza di trovarsi davanti a una situazione difficile da risolvere da soli è il primo passo per poterla affrontare. Guanate, il blog di Milena Tipaldo, illustratrice genovese Ode all'ansia from Milena Tipaldo on Vimeo. ODE ALL'ANSIA, di Milena Tipaldo Fedele compagna Che mi guardi divertita Da quanto ci conosciamo? Pare una vita. Tu che con grazia Sul mio stomaco poggi Dimmi tu che lo divori, Cosa ho mangiato oggi? Il tuo nome con cui Nessun gioco fa rima È ansia di merda Delle piaghe, la prima. Solitamente non è prevedibile con precisione l’imminente arrivo di un disastro naturale, poiché sono scarse le indicazioni che possono aiutare a stabilire se l’evento sta per accadere. In genere si verificano in uno spazio temporale breve, ma le conseguenze che portano con sé sono devastanti.
Innanzitutto comportano una grave minaccia alla vita, sia direttamente che indirettamente, poiché i sopravvissuti spesso sono testimoni della morte di altre persone. Inoltre lasciano poche o nessuna possibilità di controllo sulla situazione, alimentando un clima di caos e sensazione di impotenza. Caratteristica fondamentale è che ad essere colpita non è una singola persona ma l’intera comunità. Il coinvolgimento di molte persone simultaneamente crea una situazione che viene percepita come un disordine generalizzato, come la fine del mondo. L’evento stressante in sé è la principale fonte delle conseguenti reazioni delle vittime. Tuttavia la sofferenza, specialmente nel caso di calamità di massa, non è confinata all’evento. Il trauma non si esaurisce una volta che l’evento è passato, ma prosegue, seguito da un secondo disastro, ovvero dagli effetti della reazione al disastro (Kapor Stanulovic, 2005). La distruzione causata da eventi climatici e disastri geologici è purtroppo conosciuta in tutto il mondo. Generalmente gli effetti fisici di un disastro sono evidenti. Decine, centinaia, migliaia di persone perdono la vita; molti superstiti sono feriti o invalidi; case, luoghi di lavoro, beni personali e attrezzature risultano distrutti o danneggiati. La ricerca di Bland e colleghi (1996) sulle vittime del terremoto ha rilevato che i problemi di salute mentale sono peggiori fra le persone con maggiori perdite materiali Anche se, in generale, sono gli effetti emotivi di un disastro che causano più sofferenza. Nei giorni e nelle settimane che seguono il disastro può emergere un ampio ventaglio di disturbi emotivi. Nella maggior parte dei casi i sintomi recedono gradualmente ma, nelle dodici settimane successive, dal 20% al 50% delle vittime possono mostrare ancora evidenti sintomi. La maggior parte delle vittime non mostra più sintomi nel giro di un anno o due, anche se almeno un quarto di esse può ancora presentare disturbi significativi. Può accadere inoltre che alcune vittime che in precedenza apparivano esenti da sintomi comincino a mostrarne a un anno o due dal disastro (Kapor Stanulovic, 2005). Accade, infatti, che il sollievo iniziale, dovuto al fatto di essere stati salvati, e l’iniziale ottimismo per una rapida ripresa possono indurre uno stato d’animo euforico. Tuttavia, successivamente, può affiorare la consapevolezza che le perdite personali e materiali sono irreversibili, che le persone decedute non ritorneranno, che i vuoti creatisi in famiglia sono permanenti, che il posto di lavoro è definitivamente perduto. Dopo un certo lasso di tempo, a volte considerevole, gli stimoli associati al disastro fanno riaffiorare ricordi precedentemente rimossi e come risultato fanno scattare reazioni psichiche. Gli anniversari, per esempio, possono essere momenti particolarmente difficili, in cui ricompaiono, temporaneamente e senza preavviso, i sintomi che ormai si credevano superati. Si hanno notizie di vittime internate nei campi di concentramento nazisti che iniziarono a manifestare i sintomi post traumatici a distanza di anni dopo la liberazione (Pietrantoni, Prati, 2009). Oltre a ripercuotersi direttamente sulle singole vittime, i disastri provocano lacerazioni nel tessuto sociale. Possono recidere i legami che uniscono le persone all’interno di famiglie, gruppi di lavoro, intere comunità e società. I disastri possono materialmente distruggere istituzioni simboliche della comunità, come scuole e chiese, oppure interromperne l’attività. Ne deriva un profondo senso di vuoto legato all’appartenenza ad un gruppo che purtroppo si è sfaldato o che può non ritornare più come in precedenza. Si possono perdere familiari, amici e vicini di casa, ci si addolora per la loro scomparsa e ci si meraviglia della propria sopravvivenza. A volte si è costretti a ricreare una comunità dal nulla e vivere a contatto con persone magari sconosciute o culturalmente lontane. Tutto ciò procura effetti negativi sull’identità, poiché viene minato il senso di appartenenza che nasce dal vivere all’interno di una comunità. Il sentirsi parte di un gruppo suscita sentimenti positivi per l’autostima e porta alla condivisione di valori, credenze e norme comportamentali (Smith, Mackie, 2000). Una catastrofe può stravolgere la consapevolezza di appartenere ad un gruppo ripercuotendosi in modo negativo sulla costruzione dell’identità. A volte lo strappo dalla propria terra è radicale. Nel 2006, con la direttiva della presidenza del Consiglio dei Ministri, si è avuto in Italia l’ingresso ufficiale dell’intervento di tipo psicosociale nell’ambito delle operazioni di supporto a seguito di un disastro, grazie alla quale sono stati adottati gli indirizzi operativi relativi ai cosiddetti “Criteri di massima sugli interventi psicosociali da adottare nelle catastrofi” << Gazzetta Ufficiale>> n. 200 del 29 agosto 2006 Un intervento a carattere psicosociale si basa su due componenti fondamentali. La prima componente rimanda all’aspetto psicologico, che si focalizza su sentimenti, pensieri, credenze, attitudini e valori, ovvero sulle componenti interiori dell’individuo. Queste caratteristiche sono da considerare come risorse interne fondamentali. La persona infatti conferisce valore e significato al mondo esterno e così facendo riesce ad adattarsi ad esso. Dall’altro lato però, grazie alle proprie risorse, è in grado di agire su di esso e di modificarlo secondo le proprie esigenze. In questa ottica lo sviluppo psicologico dell’individuo non è da intendersi come una semplice acquisizione o trasformazione di abilità e capacità, ma come l’insieme di processi entro cui la persona e l’ambiente interagiscono. Risulta il frutto di un processo che coinvolge congiuntamente le caratteristiche della persona e il suo ambiente ecologico (Bronfenbrenner, 1986). La seconda componente è di tipo sociale e fa riferimento ai contesti e alla rete di relazioni in cui l’individuo è inserito. L’attenzione qui verte sulle interazioni, sui comportamenti, sui valori culturali e sullo spazio di vita, come definito da Lewin (Smith, Mackie, 2000). Negli ultimi anni, con lo sviluppo di ricerche in ambito preventivo su soggetti a rischio e traumatizzati, gli apporti della psicologia clinica e della psicologia dell’emergenza concordano nel riconoscere la possibilità di superamento di eventi traumatici nella interconnessione tra le risorse psicologiche interne, presenti nell’individuo al momento del trauma, e le risorse esterne, messe a disposizione dell’ambiente circostante. Di conseguenza, condurre un intervento psicosociale significa prestare attenzione contemporaneamente alla persona e all’ambiente in cui questa è inserita, osservando le possibili connessioni e implicazioni che possono presentarsi. È indispensabile prendere in considerazione le specificità del contesto, del gruppo in cui l’individuo è inserito e del soggetto stesso, in modo da rendere l’intervento il più funzionale possibile per quel destinatario specifico in quella particolare situazione. Ogni qual volta si decide si progettare un intervento è importante includere attività ed interventi che possano dunque proporre situazioni concrete in cui siano presenti: la garanzia dei bisogni primari di accudimento e di relazione; l’accettazione profonda della persona, che permetta l’accoglimento, la condivisione e la comprensione empatica; il riconoscimento delle risorse, poiché queste possono essere utilizzate solo se diventano visibili; ed infine la pluralità di proposte operative, per potenziare la creatività ed aprire orizzonti nuovi verso il futuro (Cecchetto, 2008). Consiglio nazionale dell'Ordine degli Psicologi In questo articolo su www.psy.it, si parla della pubblicazione, nel mese di marzo, del Decreto sui nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), con il quale viene sancito il diritto dei cittadini all’assistenza psicologica. Gli interventi psicologici e psicoterapici acquistano quindi un maggiore spazio nei settori della salute mentale dell’infanzia e degli adulti, nelle dipendenze e nelle disabilità. La maggiore novità introdotta dal Decreto, è il riconoscimento del diritto alle persone (minori o adulti), alle coppie, alle famiglie in situazioni di “disagio psicologico” di avere un intervento psicologico. Ora il Ministero della Salute e le Regioni dovranno dare attuazione a queste norme, sia attraverso il potenziamento dei servizi psicologici pubblici che attraverso forme di convenzione con i liberi professionisti. Uno dei primi passi sarà una campagna di informazione e sensibilizzazione rivolta alla categoria e ai cittadini. ![]()
Articolo dell'Espresso del 15 giugno 2017 Da un estratto di questo interessante articolo, si legge che: “Il vero problema che dobbiamo affrontare oggi riguardo alla salute di chi sbarca sulle nostre coste non è rappresentato dalle gravi malattie infettive e diffusive, la cui incidenza è assai contenuta per il fenomeno del “migrante sano” ormai ampiamente dimostrato dai dati, ma dal disagio psicologico di queste persone” “Dal punto di vista della salute mentale, l’effetto migrante sano tende a esaurirsi rapidamente, già prima dell’arrivo, a seguito delle condizioni spesso estreme in cui il percorso migratorio si compie: coloro che arrivano, donne, uomini e bambini, sono estremamente vulnerabili e manifestano forme reattive quali depressione, disturbi di adattamento, disordini post-traumatici da stress, stati d’ansia” spiega Giovanni Baglio, epidemiologo della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), che continua nell'articolo la sua riflessione. Io aggiungo che negli ultimi trenta anni sono state numerose le crisi umanitarie, conseguenza diretta di guerre e genocidi, che si sono succedute nel tempo e che hanno causato milioni di sfollati e rifugiati in tutto il mondo. Le persone che sono costrette ad abbandonare i loro paesi sono sempre più spesso portatori di sofferenza psicologica. La migrazione, infatti, al di là delle molteplici spinte che stanno alla base di essa e del significato che assumono, rappresenta soprattutto un processo di ridefinizione identitaria che coinvolge le dimensioni più intime della persona: le convinzioni, i valori, il carattere, gli affetti, la capacità di fare progetti per il futuro. Lasciare il proprio paese e andare verso la salvezza significa continuare a pagare un prezzo molto alto: la rottura dei legami familiari, i sensi di colpa o la perdita del ruolo sociale. A questo si aggiungono tutte quelle situazioni stressanti che vengono vissute durante il percorso della migrazione e che possono diventare eventi potenzialmente traumatici, causa di malessere psicologico profondo: si cita ad esempio il subire violenze o torture, vivere in condizioni difficili e provvisorie, la violazione di diritti umani, la mancata integrazione. Nel vissuto della migrazione si vive una serie di fasi: il periodo della solitudine, momento che va dal distacco dal proprio paese alla consapevolezza sulla necessità di modificare la propria visione del mondo; e il periodo della rielaborazione personale nel quale il possesso di strumenti culturali adeguati aiuta a razionalizzare e a orientare proficuamente l'esperienza [C. Mariti, 2003]. E' un processo complesso e delicato, che può non trovare un esito positivo se non si offre un sostegno adeguato, quando il benessere psicologico diventa precario. Tra le capacità personali, la resilienza si configura come un processo che permette di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita, nonostante le situazioni difficili vissute e il probabile esito negativo. Se adeguatamente supportati e alimentati, i processi resilienti, personali e sociali, possono essere alla base della ripresa di fronte alla catastrofe. (Cyrulnik, 2008). La persona logorata e ferita, dal punto di vista psicologico, ricostruisce il suo benessere entrando in relazione con altre persone e sperimentando la sensazione di fiducia, il senso di identità e di competenza. L'essere parte di un gruppo dove possono essere condivise esperienze ed emozioni è spesso una prima tappa per uscire dall'emarginazione e creare legami. I migranti sono soggetti attivi che mettono in campo capacità relazionali, competenze lavorative e professionali, conoscenze culturali, attuando di volta in volta strategie di adattamento alle diverse situazioni che si trovano ad affrontare. È nella narrazione di storie di vita individuali e collettive che la progettualità futura può affiorare. Sono storie di vita che mostrano che il cambiamento è possibile. Storie che devono essere ascoltate. |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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