Secondo alcune statistiche, l’adulto medio promette a se stesso di cambiare entro la fine dell’anno o con l’arrivo dell’anno nuovo. Tuttavia, la maggior parte di queste promesse di fine anno vengono abbandonate entro quindici settimane.
Questo ci può portare a chiedere: “perché cambiare è così difficile?” Il cambiamento è difficile perché comporta fatica, una ridefinizione degli obiettivi, delle modalità cognitive, comportamentali e relazionali insite in ognuno di noi. Ma “quali sono le competenze che permettono alle persone di cambiare davvero?" Diversi studi hanno evidenziato che coloro che riescono a raggiungere l'obiettivo prefissato usano una combinazione di due importanti strategie per il cambiamento. La prima strategia, che può sembrare familiare, si chiama “innovazione”; ovvero “l’assunzione di grandi passi per raggiungere grandi obiettivi”. Esempi di innovazione potrebbero essere: severe restrizioni dietetiche, fare esercizio fisico, riorganizzare una casa per intero o, utopicamente, la società in una sola volta. L’innovazione può certamente essere molto efficace, ma anche senza dubbio complessa, in alcune situazioni. Quando l’innovazione non funziona o non è l’approccio giusto, si può passare ad una seconda strategia, denominata Kaizen. Questa parola rappresenta la composizione di due termini giapponesi, KAI (cambiamento, miglioramento) e ZEN (buono, migliore), e significa cambiare in meglio, miglioramento. Questa strategia può essere definita più nello specifico come il “processo di piccoli passi per raggiungere grandi obiettivi”. Anche se potrebbe non apparire logico a prima vista, i piccoli passi spesso consentono di raggiungere gli stessi obiettivi in modo più veloce dei “grandi passi” dell’innovazione. I grandi passi intrinsecamente fanno paura, sia per l’individuo che li mette in atto sia per quelli che vivono intorno a lui. Una volta che la paura si manifesta, le persone tendono a dimostrare la resistenza e si tende a restare bloccati o ritirarsi, piuttosto che muoversi verso il raggiungimento degli obiettivi. Quando invece procediamo a piccoli passi, ci diamo il tempo per ritrovare di volta in volta un equilibrio intra e inter personale, ovvero dentro di noi e con le persone significative che ci circondano. Quello che potremmo imparare a fare, è impiegare entrambe le strategie, sviluppando la capacità e libertà di scegliere quella più pratica e utile in base alla situazione.
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Quando parliamo di pregiudizi intendiamo ogni serie di fantasie, idee, verità accettate, presentimenti, preconcetti, nozioni, ipotesi, modelli, teorie, sentimenti personali, stati d'animo e convinzioni nascoste: di fatto ogni pensiero preesistente che contribuisca, in un incontro con altri esseri umani, alla formazione del proprio punto di vista, delle proprie percezioni e delle proprie azioni (G. Cecchin) Non è possibile non avere pregiudizi: essi sono inevitabili e si manifestano attraverso il linguaggio e nel comportamento, proprio come si può osservare in questo video: E' l'anteprima del film "Non sposate le mie figlie" (Qu'est-ce qu'on a fait au Bon Dieu?), una simpatica commedia francese diretta da Philippe de Chauveron.
Attraverso la storia della famiglia Verneuil, il film riesce a mostrare come i valori e le credenze di un individuo influenzano i corrispettivi valori e credenze di un'altra persona. Questi, a loro volta, incontrano l'altra parte, creando a volte scontri e incompresioni ma anche soluzioni imprevedibili e creative. Essere consapevoli dei propri pregiudizi permette di rendere ogni incontro con l'altro un momento di confronto (e non di conflitto) e può creare così le condizioni per un cambiamento e un arricchimento reciproco. Qui il film completo: buona visione! Le cose che ho fatto per farti restare, dal blog di Enrica Tesio Mi dicesti:
“È bello”. “Che cosa?”. “I capelli, son vivi, non te li tagliare”. Ruppi allora le forbici, li lasciai allungare, arrivarono al collo e alle spalle e dalla spalle alla vita, dalla vita ai polpacci, ai talloni, alla terra, dalla terra ai torrenti, ai fiumi in cascata fin verso la foce, dove l’acqua da dolce si tuffa nel sale e lì, che onda nell’onda, i ricci divennero ricci di mare. E questo l’ho fatto per farti restare. Mi dicesti: “È bello”. “Che cosa?”. “Le mani, son farfalle allo sbando, svolazzano al ritmo con cui stai parlando”. Fu quel giorno che imparai il linguaggio dei sogni, traducevo in diretta per i non dormienti. Entrai in un’air band e accordai i miei strumenti. Mi misi a dirigere orchestre inventate e poi il traffico urbano in punta di dita. Formai code ed ingorghi, non si poteva più uscire né entrare. E questo l’ho fatto per farti restare. Mi dicesti. “È bello”. “Che cosa?”. “I posti in cui viaggi quando dormi, la notte. Mi piace ascoltarti di ritorno, al mattino”. Cominciai a dormire con grande attenzione, per segnarmi i dettagli e variare il copione. Cambiavo scenari, volevo stupirti con effetti speciali. Con trame intricate e personaggi da amare. E anche questo l’ho fatto per farti restare. Mi dicesti: “È bello”. “Che cosa?”. “Il tuo sguardo, ogni tanto si perde e quando si perde mi viene a cercare”. Lo allenai a guardare di notte come le civette, come le mie gatte. Si fece più forte, sbattendo le ciglia sbattevo le porte, con gli occhi spostavo gli oggetti, una piuma, una foglia, poi una bottiglia. Vedevo attraverso i vestiti, i muri, le case, ti spogliavo con gli occhi, imparai a distanza ad ipnotizzare. E anche questo l’ho fatto per farti restare. Mi dicesti: “È bello”. “Che cosa?”. “Dal bagno, sentirti cantare”. Imparai ninne nanne da ogni parte del mondo. Conoscevo canzoni per ogni tipo di fame, che toglievano l’ansia, che saziavano il cuore, che ti veniva anche voglia di fare l’amore. Ebbi grandi maestre, le sirene del mare. E anche questo lo feci per farti restare. Mi dicesti: “È bello”. “Che cosa?”. “Le spalle, il sedere, quando vai, ti allontani”. Un piede e poi un altro, impettita, mi misi in cammino, divenni un miraggio, un’ombra, un puntino. E alla fine più niente, una stella cadente. Poi persi la strada per ritornare. E anche questo lo feci per farti restare. Bertrando, psichiatra e psicoterapeuta sistemico, spiega che "le emozioni si combinano sempre tra loro: una può evocarne un'altra, secondo la personalità degli attori, la loro storia, il modo in cui ciascuna emozione è espressa o taciuta". Ogni emozione sentita o mostrata è una risposta all'emozione mostrata da qualcun altro o ad uno stimolo ambientale e insieme è un messaggio comunicativo, più o meno intenzionale. Gli altri sono a loro volta influenzati dalle emozioni che mostriamo, sviluppano le loro emozioni verso di noi e così via. L'emozione, in una ottica sistemica, diventa così un modo di creare e modulare le connessioni e le relazioni tra persone. Il modo di sentire le emozioni cambia però in relazione al sistema e alla "posizione" che occupo. Infatti, se è vero che c'è una "programmazione biologica" (un aspetto più fisico, genetico e universale) delle emozioni, è vero anche che le emozioni sono modellate e modificate dalle influenze dell'ambiente e, tra queste, quelle culturali sono tra le più importanti" [P.Bertrando,2014]. Ma cosa significa praticamente? A seconda di dove mi trovo, del mio ruolo e delle persone che ho davanti, potrò avere reazioni emotive diverse. Immaginando ad esempio di guardare un film con amici: la stessa scena potrà suscitare emozioni diverse in ognuno dei partecipanti. O ancora, la mia sorpresa di fronte ad un regalo sarà connotata in modo diverso se il regalo proviene dal mio partner o da un collega di lavoro. Così come la mia reazione emotiva ad una ingiustizia sarà diversa a seconda del luogo in cui mi trovo e da chi agisce l'azione. Ci sono poi emozioni che, a seconda del contesto culturale, vengono considerate più o meno lecite. La "vergogna" è una emozione molto sentita in Giappone, mentre nelle culture più occidentali viene quasi bandita e diventa sinonimo di debolezza e negatività. Anche questa variabile culturale influenza la nostra espressione delle emozioni. Sergio Aragones, nelle sue vignette "The shadow knows", mostra molto bene un altro aspetto interessante. A volte cerchiamo intenzionalmente di mascherare o forzare alcune emozioni, altre volte non ne siamo semplicemente consapevoli. Capita quindi di ritrovarsi nelle contraddizioni, o di non sentirsi a proprio agio, o di sentire che qualcosa non va ma non riuscire a capirne il motivo.
Nel percorso terapeutico, l'attenzione al mondo emotivo è importante per un trattamento più efficace e completo. E' nel dialogo tra paziente e terapeuta che si creano le possibilità di cambiamento nella posizione emotiva. Blake osservò che “una lacrima è una cosa intellettuale”. Corpo e mente infatti non sono entità separate ma un tutt’uno integrato, sin dalla nascita. Il corpo esiste nel tono di voce, nei movimenti, nelle posizioni, perfino nei silenzi. Con il corpo si parla, anche se a volte in modo implicito o inconsapevole. Possiamo dire che il corpo è sempre presente nelle nostre relazioni e nei processi comunicativi. Gaber, descrivendo i sintomi della schizofrenia nella canzone "L'elastico", canta così, a proposito di mente e corpo: Mi ricordo che correvo Le recenti scoperte delle neuroscienze (Damasio, Rizzolatti) rendono sempre più evidente che i meccanismi “mentali” non controllano tutto il nostro “funzionamento”, ma che, al contrario, esiste una connessione tra tutti gli elementi psico-corporei, quindi cognitivi, emotivi, motori, sensoriali, endocrini. Esiste addirittura una “memoria corporea” costituita da tracce permanenti delle esperienze passate nelle posture ripetitive e abituali, nelle alterazioni permanenti delle soglie percettive, nelle modificazioni croniche del tono muscolare di base, nei movimenti scolpiti e irrigiditi nel tempo, nell’alterazione della respirazione. Alcune ricerche (Weiss 1993) hanno messo in evidenza che carenze nel rapporto con la madre hanno effetti neuroendocrini significativi che si manifestano, anche a distanza nel tempo, anche quando si è adulti, nella nostra capacità di reagire di fronte ad eventi stressanti. Altri studi (Siegel 1999) sostengono che i circuiti cerebrali si sviluppano con modalità che dipendono dal tatto: le esperienze senso-motorie positive possono consolidare connessioni neuronali esistenti, indurre nuove sinapsi, evitare che sinapsi e neuroni non utilizzati vengano eliminati e “potati”; possono influenzare persino la velocità di conduzione dei segnali elettrici. A volte però sperimentiamo una mancata integrazione e comunicazione tra psiche e corpo che può tramutarsi in disagio e difficoltà. Gaber le canta così: Dio, che senso di paura Risulta quindi evidente che non è più possibile pensare a un intervento terapeutico sulla persona che non prenda in considerazione i due livelli, quello più prettamente psicologico e quello corporeo/fisico. Intervenire direttamente sul corpo non è né facile né semplice ma è qualcosa di articolato ed estremamente delicato. Si tratta di modificare concretamente il modo di muovere il corpo, di “stare”, di posizionarsi, di comunicare ed esprimere vissuti ed emozioni. E’ attraverso questi nuovi concetti che si può guardare alla persona e alla relazione di cura, con sempre maggiore consapevolezza, nella sua totalità e complessità. Il linguaggio svolge una funzione di intermediazione fra gli individui e la società. Non è solo un sistema di comunicazione, ma anche un sistema di rappresentazione sociale e, come tale, esercita un’enorme influenza nel modellare il modo in cui noi vediamo il mondo, ossia come costruiamo la nostra realtà, che significato le attribuiamo.
La realtà infatti non è semplicemente un «dato di fatto» a cui noi abbiamo accesso diretto. Il nostro modo di comprendere la realtà è qualcosa che dobbiamo «costruire» basandoci, almeno in parte, sulla nostra soggettiva percezione del mondo. Questa percezione è inevitabilmente diversa da un individuo all’altro, ma tuttavia ha anche vari elementi di uniformità, dato che ha una base sociale: infatti, essa è in buona parte modellata dalla cultura cui l’individuo appartiene. Non possiamo però dare per scontato che il modo in cui una persona vede il mondo sia lo stesso del modo in cui invece lo vedono altri: possono essere visioni enormemente diverse o incompatibili.. Dunque, per riuscire a relazionarci con gli altri, dobbiamo tenere conto di come ciascuno di noi vede e vive ciò che ci circonda. Il significato che le persone danno a ciò che accade è molto importante. Le nostre conoscenze influenzano le nostre azioni, e ciò che facciamo influenza a sua volta le nostre conoscenze. Questo vale sia a livello individuale sia a livello sociale. Pensiamo ai professionisti del marketing e della pubblicità che, con le parole (e le immagini), riescono a creare mondi e realtà desiderabili sollecitando i nostri acquisti; oppure riflettiamo su quanto le parole e i termini che troviamo in un articolo di giornale influenzano il nostro pensiero in merito a quel tema e di conseguenza il nostro modo di agire. Ovviamente questo processo può essere più o meno consapevole ed intenzionale. Tutto ciò ha una notevole importanza anche in relazione a come consideriamo i problemi sociali. I problemi sociali non esistono di per se stessi, sono invece socialmente costruiti. Ad esempio: Per secoli, l’alcolismo è stato considerato un «vizio»: secondo questa prospettiva, l’alcolista ha problemi con il bere perché è un amorale. Una tipica risposta al vizio dell’alcolista è stata, in passato, la prigione. L’idea dell’alcolismo come vizio è all’origine dei sentimenti di colpa e di vergogna che vive una famiglia con problemi alcolcorrelati, che con difficoltà manifesta la propria situazione e chiede aiuto. La società, parallelamequelnte, emargina la famiglia. Dal secolo scorso, si è fatta strada un’altra concezione dell’alcolismo, che lo considera come una «malattia». Questa modalità di vedere l’alcolismo è stata utile, perché le persone con problemi alcolcorrelati sono state trattate alla stregua di altri malati da curare e non più come viziosi da punire. Nello stesso tempo, però, ha portato a una deresponsabilizzazione della persona, della famiglia e della società in generale: se è una malattia, nessuno è responsabile. Il lavoro degli operatori sociali e degli psicologi non consiste soltanto nel fornire servizi «oggettivi», ma anche nell’entrare in relazione con le conoscenze soggettive delle persone. Il migliore aiuto che possiamo dare alle persone consiste nell’accompagnarle a ri-negoziare le attribuzioni di significato di alcuni aspetti della loro vita, a narrare quindi una nuova storia. Che impatto hanno le relazioni sociali sul nostro benessere fisico? spunti tratti dall'articolo Katerina Johnson, ricercatrice dell'Università di Oxford, mentre studiava il ruolo dell'endorfina nel facilitare i legami sociali, ha scoperto una correlazione tra tolleranza al dolore e numero di amicizie.
Sembrerebbe infatti che le persone che si sono costruite una larga cerchia di veri amici hanno anche una soglia più alta di sopportazione del dolore. Tollerano meglio gli stimoli dolorosi grazie all'endorfina, un oppioide naturale con affetto analgesico, prodotto dall'organismo e coinvolto nel circuito del benessere psico-fisico. Secondo alcune teorie le interazioni sociali generano emozioni positive quando l'endorfina si lega ai recettori nel cervello. Quello che Johnson voleva dimostrare era che l'endorfina si fosse evoluta non solo come anestetico naturale dell'organismo, ma anche per aumentare il piacere generato dalle interazioni sociali, essenziali alla sopravvivenza umana. La ricerca: I ricercatori hanno chiesto a 101 volontari tra i 18 e i 34 anni di rimanere con la schiena appoggiata al muro e le gambe piegate ad angolo retto rispetto al tronco più a lungo che riuscissero (un esercizio piuttosto doloroso). I soggetti hanno anche dovuto rispondere ad alcune domande sulla propria rete di amici, e sulla frequenza dei contatti con essi. A parità di età e allenamento, le persone con più amici - in particolare, con più amici che sentivano con cadenza mensile - hanno resistito al dolore più a lungo. In media, ogni aumento di 7-12 amici rispetto alla cerchia primaria di relazioni (quelle familiari) fa aumentare la resistenza al dolore da 1 a 4 minuti. Al momento non è chiaro se l'abbondanza di legami sociali stimoli la produzione di endorfina, e quindi la resistenza al dolore, o se al contrario coloro che hanno un sistema endorfinico più attivo (forse per fattori genetici) traggano maggiore piacere dalle relazioni amicali, e quindi hanno più amici. Non si capisce, in pratica, quale sia la cause e quale l'effetto. La ricerca potrà avere ricadute importanti negli studi sui disturbi dell'umore <<Recenti studi suggeriscono che parte del sistema endorfinico possa essere danneggiato in disagi psicologici come la depressione - spiega Johnson - questo potrebbe spiegare perché spesso le persone depresse non sembrano provare piacere, e si isolano dai rapporti sociali>>. Io aggiungo che, più in generale, la ricerca mette in luce come benessere "fisico" e "mentale" siano strettamente interconnessi, indipendentemente da quale sia la causa e quale l'effetto. Nella relazione di cura di una persona, i due aspetti non possono essere presi e considerati singolarmente, ma occorre metterli in comunicazione tra loro in un'ottica sistemica. |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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