Maria Montessori sostiene che nel bambino la realizzazione di se stesso si effettua attraverso l'amore. Può infatti considerarsi come un amore quell'impulso irresistibile che nel corso dei mesi unisce il bambino al suo ambiente, alle persone e alle cose che lo circondano. Non si tratta del concetto che si ha comunemente dell'amore come sentimento emotivo. E' un amore d'intelligenza che vede, osserva, e amando restituisce. Quell'ispirazione che spinge i bambini ad osservare si potrebbe chiamare "intelletto d'amore", scrive Maria Montessori. La capacità di osservare in modo vivace e minuzioso quei tratti dell'ambiente che per noi adulti sono del tutto insignificanti, è certamente una forma di amore. Non è forse caratteristica dell'amore la sensibilità che ci fa notare in un essere cose non viste dagli altri e registrare particolarità che gli altri non sanno apprezzare o scoprire, che sembrano occulte e che solo l'amore può rivelare? Nell'ambiente, l'oggetto dell'amore è soprattutto l'adulto. Da lui riceve gli oggetti e gli aiuti materiali e da lui prende con intenso amore ciò che gli è necessario per la sua formazione. L'adulto è per lui un essere venerabile, dalle cui labbre escono le parole che gli serviranno per costruire il linguaggio e gli saranno da guida. E l'adulto, con le sue azioni, addita al bambino, uscito dal nulla, come si muovono gli uomini: imitarlo significa per il bambino entrare nella vita. E' necessario riflettere, secondo la Montessori, che il bambino ama l'adulto sopra ogni cosa. Egli desidera sentire l'adulto accanto a sé e si compiace di attirare l'attenzione del genitore sopra se stesso, come a dire "Guardami, stammi vicino". Ecco allora che la sera, quando va a letto, il bambino chiama la persona che ama e che vorrebbe non lo lasciasse. E quando andiamo a mangiare, lui vorrebbe venire con noi, non tanto per mangiare anche lui, ma per guardarci, per starci vicino. L'adulto passa accanto a questo amore senza riconoscerlo. Diciamo "Non ho tempo, non posso, ho da fare" e forse in fondo pensiamo anche "Non bisogna viziarli, bisogna correggerli, i bambini, se no si finisce per essere loro schiavi". Quante volte abbiamo desiderato liberarci di lui per fare quel che ci piace, per non rinunciare ai nostri comodi, alle nostre abitudini ai nostri bisogni del momento. Ma cos'è, se non amore, quello che spinge il bambino, appena alzato, ad andare a cercare i genitori? [M. Montessori, "Il segreto dell'infanzia"] Egli non va da loro per svegliarli materialmente, ma semplicemente per rivedere chi ama, per dare loro un bacio. La Montessori aggiunge che è proprio questo amore che ha una immensa importanza per noi adulti. Metaforicamente, il padre e la madre tendono ad "addormentarsi", per la vita piena di impegni e doveri, ed hanno bisogno del loro bambino per essere risvegliati e rianimat. Senza il bambino che lo aiuta a rinnovarsi, l'uomo si ritroverebbe con una dura corazza a rendere il suo cuore insensibile. Veniva a svegliarci e ad insegnarci l'amore! E noi pensavamo che si trattasse d'un capriccio infantile e così perdemmo il nostro cuore. [M. Montessori, "Il segreto dell'infanzia"] Nessun genitore riceve un libretto d’istruzioni con l'arrivo di un figlio: ci sono cose che si imparano, alcune vengono meglio e con facilità, altre meno. Spesso sono i "capricci" a mettere in difficoltà i genitori. Maria Montessori, fra le primissime donne italiane a laurearsi in medicina e a dedicarsi allo studio dell'educazione dei bambini, nega l'esistenza dei capricci così come noi adulti li intendiamo e ci sprona a vederli sotto un'altra prospettiva. Ella afferma che il "capriccio" è una difficoltà di comunicazione o una comunicazione non efficace. Il pianto infatti è l’unico modo di comunicazione che un neonato possiede ed è fondamentale fermarsi e cercare di capire cosa ci sta dicendo. Scrive la Montessori: Quando ostacoli esterni impediscono la naturale attività vitale della "crescenza" cioè della conquista attiva dei caratteri, possono sorgere reazioni dolorose e violente del bambino. Non essendoci note le cause di tali reazioni, noi le giudichiamo senza causa e le misuriamo dalla loro resistenza a cedere ai nostri tentativi per calmarle. Con il termine vago di capriccio noi chiamiamo dei fenomeni che differiscono molto tra di loro ma che consideriamo tutti non avere una causa apparente (Montessori, Il segreto dell'infanzia) Quel pianto e quel comportamento che al genitore sembrano negativi ed irrazionali vanno letti come l’espressione di un desiderio del bambino perfettamente logico ed equilibrato, ma che l'adulto fatica a comprendere immediatamente. La mancata comprensione, specie nel caso di un bambino piccolo, è dovuta all' incapacità del neonato di comunicare in maniera a noi comprensibile (per le carenze che ancora ci sono nel linguaggio verbale). I capricci sono espressione di bisogni insoddisfatti che creano uno stato di tensione, allarme di una condizione errata, di un pericolo, rappresentano un tentativo dell'anima di chiedere, di difendersi e spariscono immediatamente se v'è stata la possibilità di comprenderli e di soddisfarli. L'adulto deve essere disposto all'ascolto, avere il tempo per fermarsi ad ascoltare, cercare di interpretare i bisogni del bambino per seguirlo ed assecondarlo con le proprie cose, conoscere i suoi tempi e il suo modo di sviluppo, preparargli un ambiente adatto. Solo così si può iniziare una nuova epoca nell'educazione, quella dell'aiuto alla vita. Se ci troviamo di fronte a bambini difficili o capricciosi, cerchiamo la ragione del loro carattere nella vita che hanno vissuto precedentemente (Montessori, La mente del bambino pag.195 ) Come scrive Enrica Tesio sul suo blog, "a forza di voler cancellare un errore si fa il buco".
La paura di sbagliare spesso ci blocca. Eppure gli errori sono uno strumento indispensabile per imparare e per crescere. Gli errori non rappresentano solo qualcosa di sbagliato ma anche un’opportunità per sperimentare, per esplorare le varie possibilità ed individuare la decisione migliore. È dai tempi della scuola che siamo propensi a "cancellare gli errori": pensiamo che gli errori siano qualcosa da non fare, che causano punizioni e suscitano vergogna. Così, anche da adulti, ogni volta che sbagliamo scatta una sensazione di fallimento. Talvolta capita che prima ancora di fare un errore, ci sentiamo paralizzati dalla paura di sbagliare: temiamo non tanto – o non solo – le possibili conseguenze dell’errore, ma soprattutto il giudizio negativo degli altri, la derisione, il disprezzo. Se agire con prudenza è necessario per prevenire i rischi, demonizzare gli errori e lasciare che la paura di sbagliare ci blocchi è un rischio ancora più grande. Ci sono infatti situazioni in cui evitare di sbagliare è impossibile: quando ci troviamo ad agire in un contesto di grande incertezza, possiamo fare tutte le valutazioni del mondo ma non arriveremo mai a distinguere chiaramente fra errore e decisione corretta. Sbagliare fa infatti parte della natura umana, siamo esseri fallibili e dobbiamo abituarci a considerare gli errori una parte ineludibile della nostra esperienza di vita. Anzi, il nostro cervello si è evoluto per sbagliare. Una ricerca scientifica, pubblicata sul Journal of Cognitive Neuroscience dimostra che impariamo più dagli errori che dai successi, poiché l’effetto sorpresa provocato dall’errore facilita e rinforza l’apprendimento. Così, quando ci troviamo di fronte a una situazione analoga, dal cervello parte un allarme: bastano 0,1 secondi per avvertirci che stiamo per sbagliare di nuovo, permettendoci di correggere il tiro. “Sbagliando si impara” non è solo un proverbio: il nostro cervello, da quando siamo venuti al mondo, è strutturato per fare errori e apprendere da essi. Basta vedere come un bambino impara a camminare o ad andare in bicicletta: riesce a trovare il giusto equilibrio solo dopo una serie di cadute e sbandamenti. Per imparare dagli errori è però importante anzitutto riconoscerli come tali. Chi non è in grado di vederli o di ammetterli, continuerà a ripeterli. Gli esempi che dimostrano quanto gli errori siano fonte di crescita e miglioramento sono innumerevoli. La scoperta dell’America è frutto di un errore: Cristoforo Colombo era convinto di arrivare nelle Indie. Leonardo Da Vinci ha conseguito obiettivi e realizzato capolavori anche grazie al fatto che ha collezionato moltissimi errori (le macchine per volare, tutte fallimentari, o la tecnica pittorica utilizzata per l’Ultima Cena, solo per fare un paio di esempi). E si dice che Thomas Edison abbia effettuato migliaia di esperimenti fallimentari prima di inventare la lampadina. Ma soprattutto, a ben vedere, frutto di una serie infinita di errori siamo anche noi esseri umani: ci siamo infatti evoluti grazie a mutazioni genetiche (cioè a errori nel processo di divisione cellulare) che, grazie la selezione naturale, sono sopravvissute perché vantaggiose. L’evoluzione stessa, cioè, è basata sugli errori. Allo stesso modo ciascuno di noi, nella propria esperienza di vita, cresce, si evolve e diventa quello che è attraverso gli errori che fa e ciò che impara da essi. Quante volte riceviamo il consiglio di fare le scale anziché prendere l’ascensore o la scala mobile? E quante volte non ascoltiamo questo consiglio? L’agenzia DDB di Stoccolma, sponsorizzata dalla Volkswagen Svezia, si è posta questa ed altre domande, partendo dal concetto che il divertimento è il modo più semplice per migliorare il comportamento delle persone e ha creato una campagna di marketing chiamata The Fun Theory. La campagna si fonda su una serie di esperimenti condotti in ambiente urbano in relazione ai quali vengono registrate le reazioni della gente. Nel video una scala della stazione della metropolitana Odenplan di Stoccolma è stata trasformata in un pianoforte gigante, ma sul sito dedicato sono presenti altri due video della campagna: in uno si vede la gente in un parco raccogliere da terra l’immondizia allo scopo di sentire il suono del bottino per rifiuti “più profondo del mondo” (in realtà si tratta di un dispositivo sonoro che si attiva con un sensore ogni volta che un rifiuto viene gettato nel bottino); nell’altro si mostra come un cassonetto per la raccolta differenziata del vetro, trasformato in un gioco Arcade, possa incentivare la raccolta stessa. A sentir loro, il divertimento “funziona”. Il 66% in più di persone usa le scale, il bottino sonoro raccoglie 72 kg di spazzatura contro i 41 di un bottino normale e il gioco Arcade richiama in una sola serata un centinaio di persone. E’ un bell’esempio di pensiero laterale e mostra come offrendo "pezzi" di bellezza, di meraviglia e divertimento inaspettato nelle operazioni di vita quotidiana, si possano efficacemente influenzare i comportamenti delle persone rendendo qualcosa divertente. L’idea che si possano influenzare le persone a fare delle “buone scelte” per sé, per l’ambiente o per la società, tuttavia non è nuova. Gli economisti comportamentali, di cui uno dei più famosi esponenti è lo psicologo Daniel Kahneman, vincitore del Nobel per l’economia 2002, da tempo hanno preso in considerazione il peso dell’irrazionalità nei processi decisionali umani. Essi affermano che l’homo economicus, teorizzato dagli economisti classici, dovrebbe essere qualcuno che, quando si confronta con una decisione, pensa a tutte le opzioni disponibili e compie sempre una scelta perfetta. Però, “l’homo economicus ha la potenza della mente di Albert Einstein, il magazzino di memoria del Big Blue di IBM e l’autocontrollo del Mahatma Gandhi.” Noi, tutti gli altri, siamo semplici homo sapiens, e quindi andiamo aiutati nei nostri processi decisionali. Uno dei primi esperimenti di Thaler fu condotto nei servizi igienici dell’aeroporto di Amsterdam. Una semplice mosca disegnata sull’orinatoio fece sì che la quantità di urina sul pavimento diminuisse dell’80%. Chi si occupa di favorire il processo decisionale verso la scelta giusta è definito un “architetto della scelta” e ha il compito di organizzare una struttura, spesso invisibile, in modo da aiutare l’homo sapiens a scegliere il meglio per sé e per la società. Questo approccio viene da loro definito “paternalismo libertario” e rappresenta una forma morbida e non intrusiva di intervento, in cui le scelte alternative non sono bloccate o negate e quindi non limita la libertà dell’individuo. Certamente nasce il timore che l’arte della persuasione possa essere spinta fino a diventare un’arma insidiosa (e già ne scrisse ampiamente Robert Cialdini), tuttavia imparare a usare a fin di bene l’irrazionalità umana sembra un approccio interessante. Anche perché risolvere un problema alla base è sempre meglio che cercare di rimediarvi dopo che si è creato. Tornando al concetto del divertimento e del gioco, sembra di poter dire che nella società occidentale attuale vi siano pochi spazi per queste attività e che vi sia una necessità di ristabilire l’equilibrio. Oggi il centro di gravità (cioè “il peso”) sta nel lavoro e non nel gioco o nella creatività, e spesso il lavoro richiede soltanto la partecipazione parziale dell’individuo. Il contrappeso dovrebbe comportare un coinvolgimento globale dell’individuo, e il gioco ha proprio questa caratteristica. Quindi ben vengano queste situazioni giocose in cui viene stimolato un coinvolgimento attivo e un’esperienza multisensoriale e che provocano emozioni e ricordi positivi. Sunstein C.R., Thaler R.H., Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth, and Happiness Yale University Press, New Haven (Ct) 2008; trad.it. Nudge. La spinta gentile, Feltrinelli, Milano 2009 Il maestro non c'era ancora, e tre o quattro ragazzi tormentavano il povero Crossi, quello coi capelli rossi, che ha un braccio morto, e sua madre vende erbaggi. In queste righe Edmondo De Amicis descrive Franti: il bullo del libro "Cuore".
Il bullismo è un fenomeno di origine antica, largamente diffuso in ambito scolastico, che però solo recentemente ha ricevuto particolare attenzione. La definizione che ne dà Dan Olweus, uno dei maggiori studiosi di questo fenomeno, è la seguente: “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, ad azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni.” Il bullismo comprende vari comportamenti: il bullismo fisico (percosse, atti violenti e lesivi, ecc), quello verbale (insulti, denigrazioni, ecc) e il bullismo relazionale (isolamento, manipolazione ecc). Nel momento in cui il bullismo non viene riconosciuto e affrontato, rimane la possibilità che causi disagio e sofferenza non solo nel bambino vittima ma anche nel bambino prevaricatore, che presenta a sua volta elementi di fragilità e di criticità, diversi da quelli della vittima. Nella maggior parte dei casi di bullismo, infatti, ci si concentra sul bambino che ha subito l’aggressione ma altrettanto importante è dedicarsi al “bullo” perché spesso dietro un atto di bullismo, ci sono messaggi comunicativi importanti, sofferenza e difficoltà relazionali che vanno individuate e risolte. Spesso nei genitori nascono preoccupazioni inerenti al rendimento scolastico, all'autostima, all'integrazione sociale, alla devianza, al futuro dei figli e al loro benessere in generale. Ma come si deve comportare un genitore di un bambino vittima di bullismo? E un genitore di un bambino bullo? Purtroppo non c'è una risposta univoca, perché ogni caso è unico ed occorre fare attenzione al bambino, che sia il bullo o la vittima e alle dinamiche relazionali nel quale è inserito. Da un lato è fondamentale proteggere il bambino vittima di atti di bullismo e aiutarlo nel superare il difficile momento attivando le risorse che possiede; dall'altro lato è importante evitare di etichettare in modo marcatamente negativo e immodificabile il comportamento del bullo e cercare di “leggerlo” come conseguenza di un disagio psicologico. Diventa quindi di grande rilevanza mettere in atto un lavoro di collaborazione tra la famiglia, la scuola e gli operatori del sociale, come psicologi e assistenti sociali. In un articolo del blog alleyoop.ilsole24ore.com l'insegnante Antonella Bonavoglia scrive a proposito dell'importanza del gioco simbolico: Lucia e Martina sembra che stiano litigando. “Facciamo finta che io sono la mamma e tu la figlia!” “No! Voglio essere io la mamma!” Il desiderio di intervenire in questo tipo di litigi, in classe, è forte. Potrei richiamare le bambine, calmando la loro rabbia e, magari riportandole al silenzio. Ma non lo faccio e vi spiego perché. Il giocare “a fare finta” è una modalità ludica importantissima, sempre meno utilizzata, purtroppo. Le due bambine non stanno semplicemente litigando; stanno misurandosi, si stanno confrontando, cercando di capire fino a che punto spingersi, fino a che punto insistere o meno, fino a che punto cedere. Si stanno conoscendo, stanno attuando strategie nuove di comunicazione e di socializzazione. Non solo. Stanno immaginando: di essere altrove, di essere altro. In quel momento stanno fantasticando di essere due donne adulte, stanno scegliendo il proprio ruolo e, anche se non è evidente, la loro personalità si espande, verso l’esterno, cercando di pensare a situazioni future o riproponendo scene già viste. Lo psicologo Jean Piaget, ha analizzato, nel corso della sua carriera, questa particolare modalità di gioco, denominata “gioco simbolico”. Si sviluppa a partire dai due anni di età e continua fino agli otto, circa. In questo periodo i bambini cominciano ad adoperare il pensiero simbolico in quanto acquisiscono la capacità rappresentativa, cioè sono in grado di rappresentarsi mentalmente cose, oggetti, situazioni, persone indipendentemente dalla loro presenza. I bambini sono in grado di compiere imitazioni differite, cioè di rappresentare azioni passate delle quali sono stati testimoni (come pettinare la bambola allo stesso modo della madre che pettina la sorellina). Frutto di tale fenomeno è il gioco “far finta di”, appunto il gioco simbolico, che presuppone un’imitazione differita (correre sopra un cavallo) e delle combinazioni mentali (usare il manico di scopa al posto del cavallo). Piaget (1962) ha posto in stretta relazione il gioco e lo sviluppo cognitivo dei bambini. Durante il secondo anno di vita le azioni di gioco diventano ancora più complesse coinvolgendo oggetti che a loro volta possono diventare altri oggetti, come un cubo che diventa una torre. Il gioco diventa così simbolico o di rappresentazione, perché costituisce un mezzo per mettere in atto delle scene simboliche. I bambini nativi digitali, hanno a disposizione una vasta gamma di giochi, adatti alla loro crescita e al potenziamento delle loro abilità cognitive. Pensiamo all’importanza della robotica e dell’informatica: attraverso l’interazione con dispositivi elettronici, è possibile sviluppare il problem solving, la capacità di ragionamento, di interpretazione della realtà. Eppure, sembra avere sempre meno spazio, il gioco libero. A volte viene visto, soprattutto in classe, una “perdita di tempo”. A scuola dell’infanzia, invece, ad esempio, è importantissimo lasciare dei momenti “vuoti” , in cui i bambini possano sentirsi liberi di muoversi e di inventare giochi, senza l’intervento dell’insegnante. E’, tra l’altro, un modo per osservare gli alunni, i loro comportamenti, le loro scelte, il loro modo di comunicare, la loro capacità di autonomia. E’ sorprendente ciò che i bambini riescono a fare solo con l’immaginazione e quanto si riesca a scoprire della loro personalità, semplicemente, osservandoli. Nel periodo estivo, quando le giornate dei piccoli non sono scandite da impegni scolastici, sportivi e ricreativi, sarebbe davvero opportuno ritrovare una sensazione fastidiosa e allo stesso tempo preziosa: la noia. E’ proprio nei momenti “vuoti” che si nasconde la scintilla della creatività, è proprio qui che si sviluppa il gioco simbolico. La fondamentale importanza dell’aspetto ludico nel favorire l’apprendimento deve essere sempre ricordata dagli educatori e dagli adulti, in generale. Troppo spesso si toglie tempo al gioco libero, privilegiando altre attività considerate più formative. Invece, attraverso il gioco, il bambino acquista autonomia, sviluppa la sua identità e arricchisce anche le sue competenze, che lo aiuteranno a trovare un posto nel mondo. Articolo di Antonella Bonavoglia |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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