“Avrei voluto annotare ogni istante, ma il tempo non è fatto di istanti, li contiene. E nel tempo c’è molto altro.” S. M. Per venticinque anni, Sarah Manguso ha tenuto un diario, che ora è diventato un libro “Andanza”. In questo memoir, l’autrice americana racconta il suo desiderio di catturare l’andanza della vita, l’eterno susseguirsi di attimi che ne costituiscono la trama:
“Temevo che se mi fossi concessa di fluttuare per più di un giorno in un tempo non documentato sarei stata travolta. Non volevo perdermi niente, era quello il mio problema. Non potevo affrontare la fine di una giornata senza annotare quello che era successo. Scrivevo di me stessa per non restare lì immobile a rimuginare – per smettere di pensare a quello che accadeva e a cosa farne. Ma soprattutto, scrivevo per poter dire che stavo prestando davvero attenzione. L’esperienza in sé non era sufficiente. Con il diario mi difendevo dalla paura di svegliarmi alla fine della vita accorgendomi che mi era sfuggita”. “Se non lo riesco a scrivere”, si diceva, “non è successo; se non vi riesco ad accedere col linguaggio, non avrà senso per me, sarà perso nel tempo” Queste parole di Sarah Maguso ci aiutano a capire quanto può essere terapeutico scrivere. Molte sono le ricerche che hanno provato l’efficacia terapeutica della scrittura. Secondo Matthew Lieberman, ricercatore alla University of California Los Angeles, ricorrere a carta e penna quando ci si trova in un momento di disagio riduce l’attività dell’amigdala (la centralina emotiva del nostro cervello) e aumenta quella delle regioni prefrontali, permettendoci di esprimere e gestire al meglio le nostre emozioni. Dalla fine degli anni ‘80 lo psicologo James Pennebaker, ricercatore all’Università del Texas, si è fatto promotore della scrittura espressiva, un metodo che consiste nello scrivere di getto, esternando il flusso di pensieri così come arrivano. Perché funziona? Gli uomini vivono immersi in un tessuto di storie. Le storie possono essere più o meno rigide, alcune lo sono talmente tanto che sappiamo già come andranno a finire. A volte queste storie possono dar origine a problemi. Scrivere può aiutare a rivedere queste storie, ad aggiungere capitoli nuovi, descrizioni di diversi punti di vista, ad ampliare il paesaggio, a mettersi nei panni degli altri, a rendere più consapevoli i vissuti emotivi, a connettere emozioni e pensieri. Aiuta a riscrivere le nostre storie, creandone altre che siano in grado di “curare”. Non si tratta di raccontare semplicemente storie “buone” per contrastare storie “cattive”, ma creare storie più funzionali, che possano contenere in un certo senso la soluzione al problema. Per cambiare devono mutare le narrazioni che organizzano le nostre interazioni con il mondo, quindi devono cambiare le nostre descrizioni del mondo e di noi stessi. Michael White, un terapeuta familiare, sostiene che la terapia può essere il contesto in cui tale riscrittura può avvenire: il terapeuta un abile sceneggiatore che accoglie le storie dei clienti e crea con loro, gli autori, nuove storie che consentano nuovi significati, risoluzioni alternative, speranze e autodeterminazione. Immaginiamo che la terra stia morendo. L'unica possibilità di salvezza è una navicella spaziale con sette posti, che sta per partire per un altro pianeta. Intorno alla navicella vi sono undici persone che aspirano a partire, Voi vi trovate nella posizione di dover scegliere le sette che partiranno e costruiranno il primo nucleo di una nuova civiltà. Di loro sappiamo pochissimo, quasi niente, e tuttavia su queste basi dovete scegliere anche rapidamente, altrimenti nessuno rimarrà in vita. Avete fatto la vostra scelta? Chi salvereste? Se siete pronti, continuiamo con il gioco: Quando la navicella con i prescelti sta già viaggiando verso il nuovo mondo ci arriva un secondo documento, con altre informazioni più dettagliate su ciascuno dei candidati (prescelti e no). Leggiamole: Siete ancora soddisfatti della vostra scelta? Su cosa ci fa riflettere questo gioco?
Molto spesso, se le informazioni a nostra disposizione sono poche, produciamo automaticamente delle "immagini" generali, che non tengono conto dei quasi infiniti casi particolari ma che ci permettono comunque di agire in modo rapido e il più efficace possibile. Queste immagini generali sono considerati "stereotipi": ci affidiamo ad essi per interpretare la realtà quando non abbiamo abbastanza informazioni dettagliate e specifiche o quando non abbiamo il tempo per decifrare e comprendere tutta la complessità. Essi, sebbene funzionali in alcuni casi, non sono mai delle rappresentazioni accurate della realtà. Ritornando al gioco: per ogni parola è come se ci fossimo chiesti "qual'è il suo significato più convenzionale?". Così, quando abbiamo letto per esempio la parola atleta abbiamo avuto una certa immagine (il più delle volte un ragazzo giovane e forte); ma quel significato non è nella parola, siamo noi che abbiamo associato quel significato nell'atto di interpretarla alla luce della situazione in cui ci trovavamo. Husserl afferma infatti che: “L'atto del conoscere implica un'operazione di riempimento ovvero un'attribuzione di senso all'oggetto della percezione”. E' un po' come se riempissimo quella parola di un significato, sulla base delle nostre conoscenza, della nostra cultura, della nostra esperienza. La situazione in cui ci troviamo e il problema in cui siamo impegnati rendono più plausibile un'interpretazione piuttosto che un' altra. Di fronte a parole isolate dobbiamo ricorrere ad associazioni meccaniche: o la prima immagine che ci viene in mente o quelle che valgono comunemente in una certa cultura. Ma gli stereotipi non sono qualcosa di “oggettivo”, sono delle costruzioni al tempo stesso sociali ed arbitrarie. Agire sulla base di stereotipi però rischia di farci cadere in errore., come forse è successo con alcune scelte del gioco. E' importante imparare a convivere con il disagio dell'incertezza, sopportare l'esplorazione prolungata e paziente, rendersi disponibili all'esplorazione dei mondi possibili. Si tratta di diventare più flessibili e aperti, senza fretta di arrivare alle conclusioni, disposti ad accogliere particolari che giudicheremmo più marginali e irrilevanti, a vedere le stesse cose anche da altri punti di vista. Dobbiamo abituarci a pensare che i casi particolari sono degli strumenti che ci aiutano ad uscire dalle cornici che diamo per scontate e alle quali ci affidiamo e possono essere utilizzati come delle occasioni fondamentali per l'ascolto attivo. Chi maneggia diverse lingue, si sarà sicuramente accorto che molte parole esistono solo nella lingua d’origine e, per questo, in italiano possono essere espresse solo utilizzando un giro di parole.
Nella lingua groenlandese, ad esempio, esistono due parole per "neve": qanik- (neve nell’aria) e aput- (neve per terra). Da queste radici derivano parole come qanipalaat (soffici fiocchi di neve che cadono) e apusiniq (cumulo di neve). O ancora, gli Yupik identificano e nominano in modo diverso almeno 99 formazioni di ghiaccio diverse. La parola Nuyileq significa per esempio “ghiaccio rotto che comincia a espandersi, pericoloso camminarci sopra”. Esistono anche parole che afferiscono alla sfera relazionale: Koi no yokan (in giapponese) significa “incontrare qualcuno e sapere di essere destinati ad innamorarsi a vicenda”; Sisu (finlandese) è la straordinaria determinazione, il coraggio, specialmente di fronte alle avversità. Hoʻoponopono (hawaiano) La pratica o l’interazione del reciproco perdono e della restituzione; Ubuntu (bantu) letteralmente significa “umanità”, ma in realtà indica molto di più. Nell’etica dell’Africa sub-Sahariana è la credenza filosofica secondo cui tutti gli uomini sono connessi e ciascuno è ologramma della società. “io sono perché noi siamo”. Kilig (tagalog, una lingua delle Filippine) è “la vertigine che si prova quando si incontra la persona per cui si ha una cotta”; Samar (arabo) significa “Sedersi insieme per raccontare storie all’ora del tramonto". Retrouvailles (francese) è “la gioia di un incontro con una persona amata che avviene dopo una lunga separazione”. Tiam (farsi) letteralmente ”Lo scintillio negli occhi al primo incontro”. Il termine fa riferimento all’incontro con una qualsiasi persona: che sia un bambino, un anziano, un uomo o una donna. Sono quegli sguardi con persone sconosciute, ma che ci lasciano qualcosa dentro. Iktsuarpok (inuit) è “la sensazione di attesa prima di incontrare qualcuno”. Dadirri (lingua aborigena australiana) è “L’atto profondo e spirituale di un ascolto riflessivo e rispettoso”. Viraha (hindi) indica “la consapevolezza di amare qualcuno durante un periodo di separazione”, Utepils (norvegese) è “Una birra gustata all’aperto, soprattutto nel primo giorno caldo dell’anno”, Cafuné (brasiliano) significa “far scorrere le dita tra i capelli della persona amata”. È un termine che in realtà può essere usato anche per il pelo degli animali. Questa parola racchiude in sé intimità, passione e tenerezza allo stesso tempo; Zhi zi zhi shou Yu zi xie lao (cinese) significa “tenersi per mano e invecchiare insieme” Ma questo cosa significa? I sistemi umani sono sistemi che generano linguaggio e simultaneamente generano significato: la comunicazione definisce quindi il sistema socioculturale. È innanzitutto attraverso la comunicazione che i diversi elementi della cultura di un gruppo vengono trasmessi e confermati. La lingua consiste infatti di concetti e proposizioni usati per analizzare la nostra esperienza. Ogni parola è una tessera di quel mosaico, in buona parte non consapevole, costituito dalle nostre premesse nel decodificare, punteggiare e attribuire senso al mondo e all'esperienza. Il linguaggio contribuisce a formare la nostra percezione, i nessi ed i significati che attribuiamo ai fatti ed alle interazioni. Esso ci lega a coloro che condividono la nostra lingua, la nostra cultura, un pezzo della nostra storia [Cecchin]. In ogni cultura si crea quindi sempre uno specifico "lessico familiare", che è necessario per interagire con il mondo circostante e darne un significato. Riprendendo l'esempio precedente, se fossi un Yupik e non conoscessi la parola che indica il tipo di ghiaccio su cui è pericoloso camminare, probabilmente correrei dei rischi. Allo stesso modo, anche le parole che descrivono particolari realtà relazionali, diventano importanti per interagire con le altre persone e cogliere le diverse sfumature di significato. Ma c'è un altro aspetto importante: è attraverso il linguaggio che costruiamo la nostra esperienza e la nostra realtà. Che effetti potrebbe avere allora utilizzare parole positive anziché vocaboli demotivanti? Cosa accadrebbe se, in un momento di sofferenza, invece di parlare di "trovare il modo per andare avanti" usassimo la parola finlandese Sisu per descrivere la straordinaria determinazione e focalizzarci sul coraggio di fronte alle avversità? Certo non basta semplicemente cambiare tipo di linguaggio per cambiare ciò che ci procura malessere, ma sicuramente possiamo provare ad utilizzare parole con una connotazione positiva, per osservare i piccoli benefici sulle nostre vite e sperimentare una posizione nuova, un punto di vista nuovo sui nostri problemi. |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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