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Solo parole (?)

1/31/2018

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Chi maneggia diverse lingue, si sarà sicuramente accorto che molte parole esistono solo nella lingua d’origine e, per questo, in italiano possono essere espresse solo utilizzando un giro di parole.

Nella lingua groenlandese, ad esempio, esistono due parole per "neve": qanik- (neve nell’aria) e aput- (neve per terra). Da queste radici derivano parole come qanipalaat (soffici fiocchi di neve che cadono) e apusiniq (cumulo di neve). O ancora, gli Yupik identificano e nominano in modo diverso almeno 99 formazioni di ghiaccio diverse. La parola Nuyileq significa per esempio “ghiaccio rotto che comincia a espandersi, pericoloso camminarci sopra”.

Esistono anche parole che afferiscono alla sfera relazionale:


Koi no yokan (in giapponese) significa “incontrare qualcuno e sapere di essere destinati ad innamorarsi a vicenda”;  Sisu (finlandese) è la straordinaria determinazione, il coraggio, specialmente di fronte alle avversità. Hoʻoponopono (hawaiano) La pratica o l’interazione del reciproco perdono e della restituzione; Ubuntu (bantu) letteralmente significa “umanità”, ma in realtà indica molto di più. Nell’etica dell’Africa sub-Sahariana è la credenza filosofica secondo cui tutti gli uomini sono connessi e ciascuno è ologramma della società. “io sono perché noi siamo”. Kilig (tagalog,  una lingua delle Filippine) è  “la vertigine che si prova quando si incontra la persona per cui si ha una cotta”; Samar (arabo) significa “Sedersi insieme per raccontare storie all’ora del tramonto". Retrouvailles (francese) è “la gioia di un incontro con una persona amata che avviene dopo una lunga separazione”. Tiam (farsi) letteralmente ”Lo scintillio negli occhi al primo incontro”. Il termine fa riferimento all’incontro con una qualsiasi persona: che sia un bambino, un anziano, un uomo o una donna. Sono quegli sguardi con persone sconosciute, ma che ci lasciano qualcosa dentro. Iktsuarpok (inuit) è “la sensazione di attesa prima di incontrare qualcuno”. Dadirri (lingua aborigena australiana) è “L’atto profondo e spirituale di un ascolto riflessivo e rispettoso”. Viraha (hindi) indica “la consapevolezza di amare qualcuno durante un periodo di separazione”, Utepils (norvegese) è “Una birra gustata all’aperto, soprattutto nel primo giorno caldo dell’anno”, Cafuné (brasiliano) significa “far scorrere le dita tra i capelli della persona amata”. È un termine che in realtà può essere usato anche per il pelo degli animali. Questa parola racchiude in sé intimità, passione e tenerezza allo stesso tempo; Zhi zi zhi shou Yu zi xie lao (cinese) significa “tenersi per mano e invecchiare insieme”

Ma questo cosa significa?

I sistemi umani sono sistemi che generano linguaggio e simultaneamente generano significato: la comunicazione definisce quindi il sistema socioculturale. È innanzitutto attraverso la comunicazione che i diversi elementi della cultura di un gruppo vengono trasmessi e confermati. La lingua consiste infatti di concetti e proposizioni usati per analizzare la nostra esperienza.

Ogni parola è una tessera di quel mosaico, in buona parte non consapevole, costituito dalle nostre premesse nel decodificare, punteggiare e attribuire senso al mondo e all'esperienza. Il linguaggio contribuisce a formare la nostra percezione, i nessi ed i significati che attribuiamo ai fatti ed alle interazioni. Esso ci lega a coloro che condividono la nostra lingua, la nostra cultura, un pezzo della nostra storia [Cecchin]. In ogni cultura si crea quindi sempre uno specifico "lessico familiare", che è necessario per interagire con il mondo circostante e darne un significato.

Riprendendo l'esempio precedente, se fossi un Yupik e non conoscessi la parola che indica il tipo di ghiaccio su cui è pericoloso camminare, probabilmente correrei dei rischi. Allo stesso modo, anche le parole che descrivono particolari realtà relazionali, diventano importanti per interagire con le altre persone e cogliere le diverse sfumature di significato.

Ma c'è un altro aspetto importante: è attraverso il linguaggio che costruiamo la nostra esperienza e la nostra realtà. Che effetti potrebbe avere allora utilizzare parole positive anziché vocaboli demotivanti? Cosa accadrebbe se, in un momento di sofferenza, invece di parlare di  "trovare il modo per andare avanti" usassimo la parola finlandese Sisu per descrivere la straordinaria determinazione e focalizzarci sul coraggio di fronte alle avversità?

Certo non basta semplicemente cambiare tipo di linguaggio per cambiare ciò che ci procura malessere, ma sicuramente possiamo provare ad utilizzare parole con una connotazione positiva, per osservare i piccoli benefici sulle nostre vite e sperimentare una posizione nuova, un punto di vista nuovo sui nostri problemi.

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