Settimana scorsa pioggia e freddo ci hanno messo a dura prova: via l'estate in un lampo ed eccoci in autunno. Spesso i temporali e la pioggia vengono usati come metafore per descrivere il dolore, la sofferenza, la tristezza. E altrettanto spesso ci dicono, sempre nella metafora, che la pioggia è necessaria per la crescita, che dopo la tempesta arriva il sole, che non c'è arcobaleno senza temporale, che bisogna imparare a ballare sotto la pioggia...beh, sì, potrebbe essere anche bello e romantico ballare sotto la pioggia ... a condizione che non sia un diluvio e che si abbia la sicurezza di una casa calda dove asciugarsi e riposarsi poi. Voglio sfidare chiunque a trovare un lato positivo nello stare dentro al temporale sempre, senza reti di sicurezza, senza che smetta, senza sapere dove andare e se finirà mai!
Mi ha fatto pensare alle persone che incontro nel mio studio: anche loro stanno attraversando una tempesta e io chiedo loro di raccontarmela, di starci dentro, di capirla insieme, di trovarne un senso per poterne uscire. Oggi voglio dire loro che stanno facendo un lavoro pazzesco, doloroso e faticoso e voglio ringraziarli perché, nonostante non riescano a vedere il sole dietro le nuvole, si fidano di me.
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Da quando Vera ha iniziato a camminare, le cadute si sono susseguite. Al parco, poi, vedendo gli altri bambini correre, è motivata a fare altrettanto e capita che inciampi, scivoli, perda l'equilibrio. A volte si rialza senza un lamento, altre volte inizia a piangere per le ginocchia sbucciate. Niente che non si risolva con un abbraccio e qualche coccola. Quando succede però, proprio perché conosco la potenza delle parole, mi chiedo cosa sia meglio fare e dire.
Il classico: "Non piangere, non é successo niente" : beh, insomma, forse per noi adulti è poca cosa e il nostro intento è certo quello di consolare il pianto, ma per una bambina di nemmeno due anni che sta sperimentando le sue capacità? Che messaggio trasmettiamo? Che cadere non è importante? Che le cadute vanno nascoste perché scomode? "Non ti sei fatto niente": anche qui si rischia di sottovalutare la reazione del bambino/a e di sostituirsi a lui/lei nel processo di presa di consapevolezza. Magari può essere più utile aiutarlo/a ad osservare e valutare insieme cosa è successo? "Non sei capace!": magari condita con ironia e risatine...che effetto può fare su un/a bambino/a è facile da capire...basta che proviamo a dire la stessa frase a noi stessi quando sbagliamo. E quante volte ce la portiamo dietro anche da adulti? Quante volte ci diciamo "Sono un fallito, non sono capace di fare nulla, sbaglio tutto"? "Piangi per nulla!": questo capita di dirlo e di sentirlo spesso. Ma se ci fermiamo a riflettere, è un'affermazione che trasmette un messaggio sbagliato: ovvero che piangere non è una cosa da poter fare sempre e che non si deve piangere quando, letteralmente e metaforicamente, "si cade". Ecco, io vorrei essere una mamma che di fronte alla cadute di mia figlia, sappia prima di tutto osservare. Guardare cosa è successo ed osservare la reazione di mia figlia. Aspettare (ahimé a volte è così difficile) e poi decidere cosa fare e cosa dire a seconda della sua reazione. Intervenire subito se necessario, o lasciare che se la sbrighi da sola, magari aiutandola poi a capire come mai è successo e come mai ha reagito così. Vorrei essere una mamma che sappia anche valorizzare le cadute. Perché alla fine si cade tutti. Chi prima, chi poi, chi più spesso, chi non fa una piega, chi fa fatica ad alzarsi per mille ragioni. Le cadute però sono importanti, e spesso tendiamo a nasconderle per vergogna, perché sono una prova tangibile di non essere stato "abbastanza" o "capace". Potrei sciorinare un sacco di aforismi e citazioni sugli errori ma il succo sarebbe sempre lo stesso: ciascuno di noi, nella propria esperienza di vita, cresce, si evolve e diventa quello che è attraverso gli errori che fa e ciò che impara da essi. Se vi interessa il tema degli errori e della paura di sbagliare, QUI POTETE TROVARE UN ARTICOLO che ho scritto. Quando sono diventata mamma, mio papà già non c'era più. Capita spessissimo che io me lo immagini in veste di nonno: penso a quello che direbbe, a come giocherebbe, alle risate e agli abbracci che darebbe a sua nipote. Purtroppo è tutto nella mia testa eppure ... non c'è assenza. Perché ci sono i ricordi, ci sono i sogni, ci sono le coincidenze che mi piace pensare non siano solo un caso. Ci sono le sensazioni, le foto, i consigli dati allora, forse non ascoltati, ma che riaffiorano adesso nel momento del bisogno. Perdere qualcuno è dolore e lacrime, anche a distanza di anni: cambia forma ma resta. Riuscire a sentirne la presenza, invece, nonostante il vuoto fisico, ha in sé un qualcosa di "magico". Ed è per questo che quando sento il vento soffiare, come il giorno in cui se ne è andato e come quello in cui sono diventata mamma, o quando vedo una farfalla bianca svolazzare sui miei fiori, dico a mia figlia "è il nonno". Sant'Agostino scrisse che i morti "non sono assenti ma sono esseri invisibili". Chi ha perso una persona cara sa quanto doloroso e faticoso può essere continuare la vita senza averla più accanto. La mancanza resta l'unica costante nel tempo che passa ma per oggi, con questo psicoesercizio, vi invito a soffermarvi sulla presenza. Mi farebbe piacere condividere i vostri commenti o le vostre esperienze. Ecco un libro che parla di famiglia e di come siamo semplici anelli di una catena di generazioni. Spesso diventiamo vittime di eventi e traumi già vissuti dai nostri antenati. E' l'inconscio familiare: la storia che altri hanno scritto per noi.
Anne Ancelin Schutzenberger, terapeuta ed analista con oltre cinquant'anni di esperienza, spiega nel libro "La sindrome degli antenati" [1993-Di Renzo Editore] il suo originale approccio psicogenealogico. "La vita di ciascuno di noi è un romanzo. Voi, me, noi tutto viviamo prigionieri di un'invisibile ragnatela di cui siamo anche tra gli artefici. Se imparassimo ad afferrare, a comprendere meglio, ad ascoltare e a vedere queste ripetizioni e coincidenze, l'esistenza di ciascuno di noi diventerebbe più chiara, più sensibile a ciò che siamo e a ciò che dovremmo essere. Ma è possibile sfuggire a questi fili invisibili, a queste triangolazioni, a queste ripetizioni?" Anne Ancelin Schutzenberger sostiene che, in un certo senso, siamo meno liberi di quanto crediamo. Pertanto possiamo riconquistare la nostra libertà e svincolarci dalla ripetizione capendo ciò che accade, afferrando questi fili nel loro contesto e nella loro complessità. Questi complessi legami vengono vissuti nell'indicibile, nell'impensabile, nel non detto o in segreto. Tuttavia esiste un modo per trasformare sia questi legami affinché le nostre vite diventino profondamente a misura di ciò che desideriamo, di ciò di cui abbiamo voglia e bisogno per esistere. Se si è governati dal caso o dalla necessità, si può comunque cogliere la propria occasione, cavalcare il proprio destino, capovolgere la sorte sfavorevole ed evitare i tranelli delle ripetizioni transgenerazionali inconsce. Secondo la Schutzenberger, il lavoro della psicoterapia è fare in modo che la vita sia l'espressione del nostro autentico essere. Lo psicoterapeuta, dopo essersi smascherato e compreso lui stesso, è pronto per capire, ascoltare e vedere. Allora, umilmente, avvalendosi di tutto il suo sapere, il terapeuta cerca di essere l'intermediario o il traghettatore che colma la distanza tra colui che cerca se stesso e la sua verità. Ci sono delle volte in cui un odore, una percezione, un'atmosfera, mi riportano velocemente a qualche ricordo del passato. Quando sento profumo di zucchero a velo, quando vedo la luce farsi spazio tra i rami degli alberi ed entrare dalle finestre di casa, quando il vento regala una tregua ai pomeriggi silenziosi ed afosi. Solitamente sono ricordi piacevoli, della mia infanzia o anche più recenti, che mi lasciano un dolce sensazione di benessere. Mi domando cosa mia figlia ricorderà di queste calde giornate estive passate insieme a giocare. Forse è ancora troppo piccola, o forse, quando vedrà il sole passare attraverso la tenda di un balcone e sentirà il fresco dell'acqua sui piedi, le torneranno vive le immagini di noi due insieme. E spero ne sia felice. Ogni giorno possiamo domandarci che ricordi vogliamo che i nostri figli serbino di noi, perché saranno proprio questi a contribuire a renderli felici da grandi. Succede anche a voi? Cosa vi riattiva dei ricordi piacevoli? Fai Nel percorso terapeutico, le persone affidano i propri ricordi, soprattutto quelli più significativi e/o dolorosi, allo psicologo.
Alcune persone continuano a soffrire per un evento anche a distanza di moltissimo tempo dall’evento stesso. Spesso riportano di provare le stesse sensazioni ed emozioni negative e di non riuscire per questo motivo a condurre una vita soddisfacente dal punto di vista lavorativo e relazionale. In questi casi, quindi, il passato è presente. Altre volte si preferisce chiudere i ricordi dietro una porta, sperando di non soffrire più, ma loro continuano a bussare. Quando le esperienze passate interferiscono in modo da produrre malessere nel presente e in ottica futura, lo psicologo accompagna la persona ad affrontare i ricordi non elaborati, che possono dare origine a molte disfunzioni. Di cosa abbiamo bisogno quando viviamo un’esperienza dolorosamente ?. Sin dalla preistoria c’è sempre stato nell’uomo il bisogno di rendere manifesto il proprio mondo interiore. Siamo abituati ad esprimere noi stessi attraverso le parole, i concetti e il ragionamento astratto, ma talvolta anche il movimento, i suoni, i colori e le forme possono aiutarci in questo obiettivo. Il linguaggio artistico permette infatti un’espressione diretta, immediata, spontanea, ed istintiva che non passa attraverso il canale verbale. Federico Babina, architetto ed illustratore, si è affidato al suo talento grafico per creare "ARCHIATRIC": una serie di immagini che cercano di rappresentare il disagio psicologico. «Ho voluto affrontare il rapporto tra creatività e psicopatologia attraverso l’illustrazione», spiega Babina. «Credo che il disagio psichico, anche se non in forma patologica, sia presente a vari livelli e in piccole quantità in ognuno di noi, è parte della nostra vita e non va stigmatizzato». Così le illustrazioni danno una possibile forma a stati emotivi, malessere, disagi e disturbi psicologici, come ansia, depressione, fobia, demenza senile: «Un esercizio astratto di traduzione da una lingua all'altra, dall'architettura della mente a un'architettura illustrata».
Il Kintsugi (letteralmente “riparare con l’oro”), è una tecnica giapponese che consiste nel ricostruire oggetti rotti o fratturati con un materiale prezioso, l’oro, di solito, unito a un collante naturale (farina e acqua). Nel Kintsugi, “il gesto riparativo, l’arte dell’attesa, della precisione e della pazienza” dona ancora più valore al manufatto, che da oggetto di uso comune diventa un oggetto “artistico”. In altre parole, l’oggetto non viene gettato via – come spesso accade quando rompiamo qualche cosa – ma acquista una nuova qualità, che lo arricchisce e ne accresce il valore estetico. Video su "Internazionale" : la storia e il vero significato del kintsugi, l'arte delle preziosi cicatrici l Kintsugi ha potente valore simbolico: sottolinea come la cura delle ferite possa non solo permetterci di guarire, ma renderci in qualche modo più “preziosi".
L'importanza di mettere insieme i propri cocci e continuare a vivere è una metafora della vita, semplice e tutt’altro che banale. Una persona che attraversa un momento doloroso e drammatico deve non solo rimettere insieme i pezzi e a valorizzare le proprie e cicatrici, ma anche andare oltre. Che cosa insegna quest’arte giapponese? Spesso tendiamo ad attribuire alla crisi e al senso di vuoto, di dolore e di sofferenza che ne consegue un valore solo negativo: il percorso terapeutico permette di affrontare l’esperienza dolorosa come un momento di crescita che, “riparando la frattura con l’oro”, tiene di nuovo insieme i pezzi e dona una nuova forma, più ricca della precedente. Inoltre aiuta a comprendere che per cambiare può essere necessario passare attraverso un disagio, una “rottura”. La bellezza prende forma proprio dalle imperfezioni e dalle fragilità. Nove donne, tutte diverse tra loro per età, esperienze, estrazione sociale e ideologia politica, raccontano ferite e sofferenze alla decima, una psicoterapeuta. Apre le confessioni Francisca, che prova odio per colei che l'ha partorita senza amarla e che teme di non saper interrompere la linea materna, una sfida da vincere per poter finalmente essere libera di vivere il suo essere moglie e madre "normale". Ed ecco Lupe, giovanissima omosessuale che consuma i suoi giorni tra droga e passioni alla ricerca di se stessa, o Simona, sessantuno anni, ex ragazza sbocciata in un'epoca in cui il sesso non doveva avere alcuna importanza, e quando invece "la protagonista assoluta della vita sociale era la castità", sposata per caso e rimasta sola a cinquantasette anni, ma che ora non riesce ad accettare la solitudine. O Andrea, giornalista di successo che si perde e decide di fuggire verso il deserto o Luisa, vedova di un desparecido. Dieci donne è la somma di tanti sguardi diversi sul mondo e di storie messe a nudo senza mediazioni o reticenze; è anche un racconto sulla femminilità, reso ancor più accattivante dall'enorme potenziale resiliente e creativo che le donne trascinano con sé, e che regala, attraverso il dolore narrato, la speranza di un futuro migliore. Da una intervista a Marcela Serrano, autrice del libro "Dieci donne" Un romanzo per guardare l'universo femminile. Che cosa hanno in comune tutte le donne del mondo?
"In tutto il mondo le donne condividono il fatto di essere nate all'interno di una minoranza culturale. In molti paesi la situazione è ben più terribile che in altri. In Cina, non molto tempo fa, le madri prendevano le proprie neonate e le portavano al fiume per affogarle nella speranza di poter partorire la volta successiva un bambino maschio. E in Africa le bambine subiscono mutilazioni genitali. Ma anche nel mondo occidentale le donne continuano a essere discriminate; in modo più sottile, meno violento, ma soffrono ancora. Ogni donna del pianeta sa, sulla propria pelle, di essere vittima di un qualche tipo di ingiustizia o abuso. C'è da dire che ora le donne non sono sole. L'inizio del ventunesimo secolo segna un'epoca in cui, alla fine di lunghe lotte da parte di molti gruppi discriminati, si sente l'esigenza di società più ugualitarie. Questo è stato il filo conduttore di molte battaglie culturali da parte di coloro che hanno vissuto nella discriminazione. E, in questo contesto generale, si colloca la lotta delle donne, che di certo sono quantitativamente molto rilevanti, trattandosi della metà della popolazione. Perché i nostri sogni possono prosperare soltanto in società che si aprano a prospettive maggiormente egualitarie per tutti. Credo che siamo in un momento in cui questa richiesta di uguaglianza si sta cristallizzando in molte lotte e mobilitazioni che vanno ampliando l'agenda e la piattaforma dell'uguaglianza. Il Cile, come sapete, è stato al centro di queste azioni rivendicative. Tuttavia sono molto interessata anche a quelle leggi, varate in molti paesi d'Europa, che stabiliscono la presenza obbligatoria delle donne ai vertici delle imprese, un colpo sferrato al maschilismo più accanito". Perché in Dieci donne ha immaginato la psicoterapeuta? "Perché ho sempre vissuto la terapia e la scrittura come se fossero amiche strette, cugine. Entrambe cercano di aprirsi una strada attraverso la storia di ogni essere umano e lo fanno allo stesso modo. Cercano il senso della natura umana. Considero la letteratura come l'espressione cosciente della terapia, il suo strumento di "racconto". Il terapeuta come lo scrittore si misura con la trama di una storia, con le sue pause, con il detto e non detto, con la scoperta di ciò che sta sotto la punta di un iceberg. Con l'abbandono alla parola dell'altro, paziente o personaggio". Le donne rappresentano ovunque il futuro, qual è la loro forza? "Credo che la forza delle donne sia nella loro "gioventù". Sono come una nazione appena nata, non sono corrotte, hanno fiducia nel modo in cui fanno le cose perché hanno studiato a lungo gli errori degli uomini e da loro hanno imparato. Quando parlo di gioventù, non parlo dell'età anagrafica delle donne ma della vita così breve della loro indipendenza, dei pochi anni passati da quando le donne sono uscite dal guscio. L'unico sbaglio che potrebbero commettere ora e che potrebbe ostacolarle, sarebbe quello di copiare il vecchio modo di fare degli uomini, invece che trovarne uno tutto loro. La loro forza sta nel poter contribuire alla vita pubblica e politica con una nuova dimensione di esperienza e solidarietà più vicina alle esigenze profonde della società, dalla quale gli uomini, che la hanno a lungo guidata, si sono temporaneamente assentati per divenire un segmento chiuso, la cosiddetta "classe politica". Insomma, noi donne potremmo portare in pubblico la dimensione, fino ad ora ignorata, della vita quotidiana. L'aver vissuto tanto a lungo all'ombra ci ha dato occhi in grado di riconoscere frammenti di luce". Il maestro non c'era ancora, e tre o quattro ragazzi tormentavano il povero Crossi, quello coi capelli rossi, che ha un braccio morto, e sua madre vende erbaggi. In queste righe Edmondo De Amicis descrive Franti: il bullo del libro "Cuore".
Il bullismo è un fenomeno di origine antica, largamente diffuso in ambito scolastico, che però solo recentemente ha ricevuto particolare attenzione. La definizione che ne dà Dan Olweus, uno dei maggiori studiosi di questo fenomeno, è la seguente: “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, ad azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni.” Il bullismo comprende vari comportamenti: il bullismo fisico (percosse, atti violenti e lesivi, ecc), quello verbale (insulti, denigrazioni, ecc) e il bullismo relazionale (isolamento, manipolazione ecc). Nel momento in cui il bullismo non viene riconosciuto e affrontato, rimane la possibilità che causi disagio e sofferenza non solo nel bambino vittima ma anche nel bambino prevaricatore, che presenta a sua volta elementi di fragilità e di criticità, diversi da quelli della vittima. Nella maggior parte dei casi di bullismo, infatti, ci si concentra sul bambino che ha subito l’aggressione ma altrettanto importante è dedicarsi al “bullo” perché spesso dietro un atto di bullismo, ci sono messaggi comunicativi importanti, sofferenza e difficoltà relazionali che vanno individuate e risolte. Spesso nei genitori nascono preoccupazioni inerenti al rendimento scolastico, all'autostima, all'integrazione sociale, alla devianza, al futuro dei figli e al loro benessere in generale. Ma come si deve comportare un genitore di un bambino vittima di bullismo? E un genitore di un bambino bullo? Purtroppo non c'è una risposta univoca, perché ogni caso è unico ed occorre fare attenzione al bambino, che sia il bullo o la vittima e alle dinamiche relazionali nel quale è inserito. Da un lato è fondamentale proteggere il bambino vittima di atti di bullismo e aiutarlo nel superare il difficile momento attivando le risorse che possiede; dall'altro lato è importante evitare di etichettare in modo marcatamente negativo e immodificabile il comportamento del bullo e cercare di “leggerlo” come conseguenza di un disagio psicologico. Diventa quindi di grande rilevanza mettere in atto un lavoro di collaborazione tra la famiglia, la scuola e gli operatori del sociale, come psicologi e assistenti sociali. |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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