Conosco delle barche che restano nel porto per paura che le correnti le trascinino via con troppa violenza.
Conosco delle barche che arrugginiscono in porto per non aver mai rischiato una vela fuori. Conosco delle barche che si dimenticano di partire, hanno paura del mare a furia di invecchiare e le onde non le hanno mai portate altrove,il loro viaggio è finito ancora prima di iniziare. Conosco delle barche talmente incatenate che hanno disimparato come liberarsi. Conosco delle barche che restano ad ondeggiare per essere veramente sicure di non capovolgersi. Conosco delle barche che vanno in gruppo ad affrontare il vento forte al di là della paura. Conosco delle barche che si graffiano un po'sulle rotte dell'oceano ove le porta il loro gioco. Conosco delle barche che non hanno mai smesso di uscire una volta ancora,ogni giorno della loro vita e che non hanno paura a volte di lanciarsi fianco a fianco in avanti a rischio di affondare. Conosco delle barche che tornano in porto lacerate dappertutto,ma più coraggiose e più forti. Conosco delle barche straboccanti di sole perché hanno condiviso anni meravigliosi. Conosco delle barche che tornano sempre quando hanno navigato, fino al loro ultimo giorno, e sono pronte a spiegare le loro ali di giganti perché hanno un cuore a misura di oceano. J.Brel Il Kintsugi (letteralmente “riparare con l’oro”), è una tecnica giapponese che consiste nel ricostruire oggetti rotti o fratturati con un materiale prezioso, l’oro, di solito, unito a un collante naturale (farina e acqua). Nel Kintsugi, “il gesto riparativo, l’arte dell’attesa, della precisione e della pazienza” dona ancora più valore al manufatto, che da oggetto di uso comune diventa un oggetto “artistico”. In altre parole, l’oggetto non viene gettato via – come spesso accade quando rompiamo qualche cosa – ma acquista una nuova qualità, che lo arricchisce e ne accresce il valore estetico. Video su "Internazionale" : la storia e il vero significato del kintsugi, l'arte delle preziosi cicatrici l Kintsugi ha potente valore simbolico: sottolinea come la cura delle ferite possa non solo permetterci di guarire, ma renderci in qualche modo più “preziosi".
L'importanza di mettere insieme i propri cocci e continuare a vivere è una metafora della vita, semplice e tutt’altro che banale. Una persona che attraversa un momento doloroso e drammatico deve non solo rimettere insieme i pezzi e a valorizzare le proprie e cicatrici, ma anche andare oltre. Che cosa insegna quest’arte giapponese? Spesso tendiamo ad attribuire alla crisi e al senso di vuoto, di dolore e di sofferenza che ne consegue un valore solo negativo: il percorso terapeutico permette di affrontare l’esperienza dolorosa come un momento di crescita che, “riparando la frattura con l’oro”, tiene di nuovo insieme i pezzi e dona una nuova forma, più ricca della precedente. Inoltre aiuta a comprendere che per cambiare può essere necessario passare attraverso un disagio, una “rottura”. La bellezza prende forma proprio dalle imperfezioni e dalle fragilità. Nove donne, tutte diverse tra loro per età, esperienze, estrazione sociale e ideologia politica, raccontano ferite e sofferenze alla decima, una psicoterapeuta. Apre le confessioni Francisca, che prova odio per colei che l'ha partorita senza amarla e che teme di non saper interrompere la linea materna, una sfida da vincere per poter finalmente essere libera di vivere il suo essere moglie e madre "normale". Ed ecco Lupe, giovanissima omosessuale che consuma i suoi giorni tra droga e passioni alla ricerca di se stessa, o Simona, sessantuno anni, ex ragazza sbocciata in un'epoca in cui il sesso non doveva avere alcuna importanza, e quando invece "la protagonista assoluta della vita sociale era la castità", sposata per caso e rimasta sola a cinquantasette anni, ma che ora non riesce ad accettare la solitudine. O Andrea, giornalista di successo che si perde e decide di fuggire verso il deserto o Luisa, vedova di un desparecido. Dieci donne è la somma di tanti sguardi diversi sul mondo e di storie messe a nudo senza mediazioni o reticenze; è anche un racconto sulla femminilità, reso ancor più accattivante dall'enorme potenziale resiliente e creativo che le donne trascinano con sé, e che regala, attraverso il dolore narrato, la speranza di un futuro migliore. Da una intervista a Marcela Serrano, autrice del libro "Dieci donne" Un romanzo per guardare l'universo femminile. Che cosa hanno in comune tutte le donne del mondo?
"In tutto il mondo le donne condividono il fatto di essere nate all'interno di una minoranza culturale. In molti paesi la situazione è ben più terribile che in altri. In Cina, non molto tempo fa, le madri prendevano le proprie neonate e le portavano al fiume per affogarle nella speranza di poter partorire la volta successiva un bambino maschio. E in Africa le bambine subiscono mutilazioni genitali. Ma anche nel mondo occidentale le donne continuano a essere discriminate; in modo più sottile, meno violento, ma soffrono ancora. Ogni donna del pianeta sa, sulla propria pelle, di essere vittima di un qualche tipo di ingiustizia o abuso. C'è da dire che ora le donne non sono sole. L'inizio del ventunesimo secolo segna un'epoca in cui, alla fine di lunghe lotte da parte di molti gruppi discriminati, si sente l'esigenza di società più ugualitarie. Questo è stato il filo conduttore di molte battaglie culturali da parte di coloro che hanno vissuto nella discriminazione. E, in questo contesto generale, si colloca la lotta delle donne, che di certo sono quantitativamente molto rilevanti, trattandosi della metà della popolazione. Perché i nostri sogni possono prosperare soltanto in società che si aprano a prospettive maggiormente egualitarie per tutti. Credo che siamo in un momento in cui questa richiesta di uguaglianza si sta cristallizzando in molte lotte e mobilitazioni che vanno ampliando l'agenda e la piattaforma dell'uguaglianza. Il Cile, come sapete, è stato al centro di queste azioni rivendicative. Tuttavia sono molto interessata anche a quelle leggi, varate in molti paesi d'Europa, che stabiliscono la presenza obbligatoria delle donne ai vertici delle imprese, un colpo sferrato al maschilismo più accanito". Perché in Dieci donne ha immaginato la psicoterapeuta? "Perché ho sempre vissuto la terapia e la scrittura come se fossero amiche strette, cugine. Entrambe cercano di aprirsi una strada attraverso la storia di ogni essere umano e lo fanno allo stesso modo. Cercano il senso della natura umana. Considero la letteratura come l'espressione cosciente della terapia, il suo strumento di "racconto". Il terapeuta come lo scrittore si misura con la trama di una storia, con le sue pause, con il detto e non detto, con la scoperta di ciò che sta sotto la punta di un iceberg. Con l'abbandono alla parola dell'altro, paziente o personaggio". Le donne rappresentano ovunque il futuro, qual è la loro forza? "Credo che la forza delle donne sia nella loro "gioventù". Sono come una nazione appena nata, non sono corrotte, hanno fiducia nel modo in cui fanno le cose perché hanno studiato a lungo gli errori degli uomini e da loro hanno imparato. Quando parlo di gioventù, non parlo dell'età anagrafica delle donne ma della vita così breve della loro indipendenza, dei pochi anni passati da quando le donne sono uscite dal guscio. L'unico sbaglio che potrebbero commettere ora e che potrebbe ostacolarle, sarebbe quello di copiare il vecchio modo di fare degli uomini, invece che trovarne uno tutto loro. La loro forza sta nel poter contribuire alla vita pubblica e politica con una nuova dimensione di esperienza e solidarietà più vicina alle esigenze profonde della società, dalla quale gli uomini, che la hanno a lungo guidata, si sono temporaneamente assentati per divenire un segmento chiuso, la cosiddetta "classe politica". Insomma, noi donne potremmo portare in pubblico la dimensione, fino ad ora ignorata, della vita quotidiana. L'aver vissuto tanto a lungo all'ombra ci ha dato occhi in grado di riconoscere frammenti di luce". Il circo della farfalla (The Butterfly Circus) è un cortometraggio del 2009 diretto da Joshua Weigel, che racconta la storia di Will, un giovane privo di arti dalla nascita. Dopo essere stato un fenomeno da baraccone in un circo, entra per caso a far parte di un'altra compagnia circense, quella di Mr. Mendez. Mr Mendez però è di poche parole e poche spiegazioni: gli impedisce di esibire la sua deformità. E così Will si ritrova senza un ruolo, come uno spettatore estasiato e sconvolto al tempo stesso: e' difficile infatti trovare un ruolo quando nessuno ha insegnato un modo diverso di vedersi e di vedere le proprie “deformità”. Con il passare dei giorni, Will scopre che esiste un mondo nel quale ci si può mettere in mostra non per i propri limiti, ma per le proprie risorse. Un mondo nel quale le competenze sono molto più importanti delle mancanze, un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. E quando Will chiederà come farà uno come lui, al quale Dio ha voltato le spalle, a trovare un modo nuovo di vedersi, Mr Mendez risponderà : "Più grande è la lotta, più glorioso è il trionfo". Articolo dell'Espresso del 15 giugno 2017 Da un estratto di questo interessante articolo, si legge che: “Il vero problema che dobbiamo affrontare oggi riguardo alla salute di chi sbarca sulle nostre coste non è rappresentato dalle gravi malattie infettive e diffusive, la cui incidenza è assai contenuta per il fenomeno del “migrante sano” ormai ampiamente dimostrato dai dati, ma dal disagio psicologico di queste persone” “Dal punto di vista della salute mentale, l’effetto migrante sano tende a esaurirsi rapidamente, già prima dell’arrivo, a seguito delle condizioni spesso estreme in cui il percorso migratorio si compie: coloro che arrivano, donne, uomini e bambini, sono estremamente vulnerabili e manifestano forme reattive quali depressione, disturbi di adattamento, disordini post-traumatici da stress, stati d’ansia” spiega Giovanni Baglio, epidemiologo della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM), che continua nell'articolo la sua riflessione. Io aggiungo che negli ultimi trenta anni sono state numerose le crisi umanitarie, conseguenza diretta di guerre e genocidi, che si sono succedute nel tempo e che hanno causato milioni di sfollati e rifugiati in tutto il mondo. Le persone che sono costrette ad abbandonare i loro paesi sono sempre più spesso portatori di sofferenza psicologica. La migrazione, infatti, al di là delle molteplici spinte che stanno alla base di essa e del significato che assumono, rappresenta soprattutto un processo di ridefinizione identitaria che coinvolge le dimensioni più intime della persona: le convinzioni, i valori, il carattere, gli affetti, la capacità di fare progetti per il futuro. Lasciare il proprio paese e andare verso la salvezza significa continuare a pagare un prezzo molto alto: la rottura dei legami familiari, i sensi di colpa o la perdita del ruolo sociale. A questo si aggiungono tutte quelle situazioni stressanti che vengono vissute durante il percorso della migrazione e che possono diventare eventi potenzialmente traumatici, causa di malessere psicologico profondo: si cita ad esempio il subire violenze o torture, vivere in condizioni difficili e provvisorie, la violazione di diritti umani, la mancata integrazione. Nel vissuto della migrazione si vive una serie di fasi: il periodo della solitudine, momento che va dal distacco dal proprio paese alla consapevolezza sulla necessità di modificare la propria visione del mondo; e il periodo della rielaborazione personale nel quale il possesso di strumenti culturali adeguati aiuta a razionalizzare e a orientare proficuamente l'esperienza [C. Mariti, 2003]. E' un processo complesso e delicato, che può non trovare un esito positivo se non si offre un sostegno adeguato, quando il benessere psicologico diventa precario. Tra le capacità personali, la resilienza si configura come un processo che permette di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita, nonostante le situazioni difficili vissute e il probabile esito negativo. Se adeguatamente supportati e alimentati, i processi resilienti, personali e sociali, possono essere alla base della ripresa di fronte alla catastrofe. (Cyrulnik, 2008). La persona logorata e ferita, dal punto di vista psicologico, ricostruisce il suo benessere entrando in relazione con altre persone e sperimentando la sensazione di fiducia, il senso di identità e di competenza. L'essere parte di un gruppo dove possono essere condivise esperienze ed emozioni è spesso una prima tappa per uscire dall'emarginazione e creare legami. I migranti sono soggetti attivi che mettono in campo capacità relazionali, competenze lavorative e professionali, conoscenze culturali, attuando di volta in volta strategie di adattamento alle diverse situazioni che si trovano ad affrontare. È nella narrazione di storie di vita individuali e collettive che la progettualità futura può affiorare. Sono storie di vita che mostrano che il cambiamento è possibile. Storie che devono essere ascoltate. |
Emma Montorfano
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Febbraio 2023
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